Schubert – Die Schone Mullerin

Schubert - Die Schone Mullerin

solista Dietrich Fischer-Dieskau
pianoforte Gerald Moore
cd Regis RRC1383

La Schöne Müllerin di Dietrich Fischer-Dieskau, registrata a Londra nel 1951, è il primo disco del baritono berlinese con il sublime pianista Gerald Moore, con il quale si instaurò poi una durevole collaborazione, ormai entrata nella storia. Insieme lo registreranno ancora nel 1961 (Emi) e nel 1971 (Dg), quando l’Accompagnatore per eccellenza si era già ritirato dalle scene. A 26 anni, Fischer-Dieskau era già un liederista eccezionale, con il vantaggio di una voce fresca, robusta ma duttile, e svettante (importante in un ciclo concepito per una tessitura tenorile). Intesa perfetta con Gerald Moore, che qui veramente respira insieme al cantante, preparandogli il terreno con la sua idiomatica precisione e regolarità dei tempi (mai troppo frenetici, mai troppo lenti), con la sua cura del suono, della dinamica e del dettaglio, condivisa dal baritono tedesco, che già denotava una forte attitudine all’approfondimento del testo. Più che di uno schizzo, quindi, si tratta già di un affresco, sul quale i due artisti continueranno a lavorare nell’arco di un rapporto ventennale (Fischer-Dieskau dirà l’ultima parola nei live 1991 con Schiff, dvd Tdk, ed Eschenbach, dvd Emi). Eppure questa prima volta conserva il suo fascino, per la fragranza, l’incantevole purezza espressiva, l’ardore, la sottigliezza già inaudita con cui Fischer-Dieskau esalta il significato delle parole. In disco, tale unità di intenti doveva apparire cosa nuova: a parte il raro incunabolo del 1909 con il tenore Franz Naval, le alternative erano polarizzate da Gerhard Hüsch e dal suo felice exploit datato 1935 (altro prodotto Abbey Road Londra), Julius Patzak con Raucheisen, Lotte Lehmann e dalla prima registrazione di Moore del 1945 con il tenore danese Aksel Schiøtz. Ma qui siamo su un altro pianeta. Non c’è frase che non sia illuminata attraverso un’inflessione, un colore, un piano, un attacco, così da renderla diversa dalla precedente o dalla successiva, in modo del tutto naturale, una tecnica di contrasto oggi adottata anche da Matthias Goerne: ad esempio, nel Lied n. 12 (Pause), sia Fischer-Dieskau sia Goerne (più di cinquant’anni dopo!) cambiano colore di voce tre volte nella medesima frase. Ma ogni canto rivela una sorpresa. Nel n. 5 (Am Feierabend) il giovane mugnaio cerca di farsi notare sul lavoro dalla bella mugnaia. Qui il cantante deve decidere cosa trasmettere fisicamente della situazione: la forza di volontà e la rabbia di non poter fare di più (Fischer-Dieskau) oppure la debolezza, il braccio che non risponde alla mente (Quasthoff), l’inquietudine dell’impotenza (Goerne). Nel n. 6 (Der Neugierige), invece, il mugnaio chiede al ruscello se la mugnaia lo ama: qui Fischer-Dieskau riesce addirittura a far percepire il candore disarmante della domanda, mentre Goerne trasforma l’interrogazione in una speranza. Ultimo esempio: si sa il cimento che pongono i due Lieder finali, dato che la vicenda si conclude con il suicidio del mugnaio disilluso; nel n. 19 si giustappongono le voci del giovane disilluso e del ruscello, mentre il n. 20, è un requiem – ninna nanna cantata solo dal corso d’acqua. Fischer-Dieskau opta ancora per il contrasto tra le due voci, l’una debole e disarmata, l’altra piena di speranza; la soluzione di Goerne qui è diversa: la stanchezza di vivere come la suggerisce lui non la si sente da nessun altro baritono, e il cambio di voce avviene con il morbidissimo Gute Ruh seguente. Ho intrecciato passato e attualità per far capire la modernità del nostro disco: ma la storia della Schöne Müllerin è ben più complessa di questi pochi cenni, tenuto conto anche del fatto che, in disco, a considerare anche live e i remake, sfioriamo quasi le duecento unità. A chi si accosta a questo oceano, consiglierei quanto meno di distinguere tra tenori e baritoni. Tra questi ultimi, non mi priverei né della cavata da violoncello mista a souplesse affettuosa di Gerard Souzay (stupendamente accompagnato da Dalton Baldwin: Philips 1964), né della tenerezza di Hermann Prey (Philips 1971 con Hokanson), voce di velluto, calda e sensuale, fresca e spontanea, signore della mezzavoce e maestro di aerea, quasi onirica leggerezza. Il panorama degli ultimi quindici anni è ancor più ricco. Le punte di diamante sono costituite dalle interpretazioni di Wolfgang Holzmair con Imogen Cooper (Philips 1997), Christian Gerhaher con Huber (Arte Nova 2003), Thomas Quasthoff con Zeyen (Dg 2005), Matthias Goerne con Schneider (Decca 2001) e poi con Eschenbach (Harmonia Mundi 2009), e da ultimo Christopher Maltman, con il sommo Graham Johnson (Wigmore Hall live 2010), ci ha dato un ritratto molto sfaccettato e tecnicamente interessante (nell’uso della mezzavoce e del registro di testa). Ho una predilezione per Goerne, la cui voce profonda e malinconica, ma anche capace di mezzevoci soffici e trasparenti come il cristallo, ottiene emozionanti effetti Sturm und Drang con Eschenbach (dai tempi lentissimi e quasi ipnotici): ma anche dal vivo alla Scala nel gennaio 2011 con Schneider si tratteneva il fiato fino alla fine. Quasthoff, in confronto, è altra cosa, almeno nella Schöne Müllerin: approccio sempre spontaneo, voce di bronzo prodiga di piani, disseminati magari in punti inediti e capace di fulminanti pennellate di accento, ma più spostato sulla tenerezza intima, sulla calma olimpica. Non dimentichiamo tuttavia che il ciclo è stato destinato in primis ai tenori e che questo fronte è sempre stato in grosso fermento. Difficile imbattersi in un panorama più articolato, per timbri vocali e letture proposte. C’è una linea da tenore più leggero, chiaro e filiforme, alla Peter Pears (con Britten nel cd Decca 1959), che arriva fino a Ian Bostridge (molto intenso nella sua fragilità e instabilità emotiva nel cd Hyperion 1994 con Graham Johnson e come bonus Fischer-Dieskau che recita, come già nel 1961, i testi non musicati da Schubert, e poi con la Uchida nel cd Emi 2003), al delicato Christoph Prégardien (da ultimo nel bel live Medici Arts 1992 con Michael Gees) e al recente Mark Padmore (Harmonia Mundi 2010), passando in area germanica per Häfliger e soprattutto Peter Schreier (impegnatissimo: da ultimo Decca 1989 con Schiff; ne ha inciso anche una versione con chitarra). E c’è il filone più lirico o addirittura Heldentenor, che risale (quanto meno) a Fritz Wunderlich (Schöne Müllerin fu il suo testamento discografico: il secondo disco del 1966, notevole nel canto, anche se poco rifinito nei dettagli) e che oggi rivive, in modo opposto, con Werner Güra (Harmonia Mundi 1999) e soprattutto con Jonas Kaufmann. Per quest’ultimo, il riferimento è all’esuberante e prorompente live Decca del 2009, indubbiamente una ventata di aria fresca, anche se qualcuno lo ha definito verista, passionale, non del tutto in stile: ma questo artista non lascia mai indifferenti e nella sua esecuzione certi canti si imprimono fortemente nella memoria. 
Giovanni Chiodi


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