[interpreti] S. Nold, D. Havar, M. Snell, K. Jarnot, S. Loges
[direttore] Frieder Bernius
[orchestra] Deutsche Kammerphilharmonie Bremen
[2 cd] Carus 82.218
Iniziata nel 1820, l’opera basata sul poema del sanscrito Kalidasa (lo stesso che ispirò cent’anni dopo Franco Alfano), che Johann Nepomuk Neumann volse a libretto in tre atti, Schubert la concepì su larga scala, con agganci alla tradizione del Singspiel (dialoghi parlati, talora in forma Melodram, ovvero con musica sottostante) e largo impiego del coro, come nel più fortunato Fierrabras. Non la completò, tuttavia, lasciandola a far compagnia ai tanti suoi lavori incompiuti. Su sollecitazione dello studioso finlandese Antti Sairanen, nacque l’idea d’affidare al compositore danese Karl Aage Rasmussen la stesura delle parti mancanti, oltre che una generale revisione dell’esistente manoscritto: rivelatosi di quantità (se non proprio di qualità) molto superiore a quanto si ritenesse, benché circoscritto a canto e piano, con solo sporadiche indicazioni in fatto di strumentazione, poco più d’uno stenografico memento d’un lavoro demandato al domani che, com’è noto dopo Rossella, è sempre un altro giorno. Rimanipolando l’esistente così da formare un continuum il più possibile coerente in termini drammaturgici (anche perché il libretto completo venne fortunosamente rinvenuto da un antiquario), Rasmussen ha creato un’opera di circa due ore seguendo criteri consimili a quelli di Cooke per la Decima di Mahler o Payne per la Terza di Elgar. Il risultato non mi manda in estasi ma è chiaramente una questione di gusti personali: diretta con scrupolo ma volando abbastanza basso, forse per leggere meglio uno spartito incognito, e cantata piuttosto male con piglio declamatorio e scarsa propensione a dar carne e sangue a personaggi per vero dire assai bislacchi.
Elvio Giudici