solista Cecilia Bartoli direttore Diego Fasolis ensemble I Barocchisti cd Decca 002894787695
Nient’affatto replica d’un frusto copione, come in molti diranno perché l’hanno sempre detto, bensì la prosecuzione – con immutate coerenza, abilità e fantasia – d’un ben preciso percorso. Dunque lo si può criticare, questo nuovo recital della Bartoli, com’è sempre legittimo e come questa cantante italiana da noi sollecita per ragioni che mi sono ormai stufato di commentare: ma occorre scegliere il bersaglio giusto, ovvero non l’esecutrice bensì l’eseguito. È inutile continuare a indagare il Settecento vocale nelle sue pieghe meno conosciute se non addirittura niente conosciute (come Agostino Steffani: chi era costui? Oggi ne abbiamo idea più precisa. e interessante. E grazie alla Bartoli)? A me invece pare ne valga la pena. La materia è oltremodo vasta, e ci riguarda perché i due grandi poli veneziano e napoletano influenzano tutta l’Europa musicale. Ed è operazione utilissima in quanto, dalle remotissime stagioni Rai degli anni cinquanta-sessanta e da quelle della Piccola Scala di Milano, non ci si è più provati a esplorare questo repertorio con un progetto vario, articolato e coerente nel tempo. Riccardo Muti, ad esempio, l’ha annunciata ripetutamente, la volontà d’indagare l’opera napoletana settecentesca: ma di proposte ne ha poi varate un paio e morta lì.
La Bartoli ha iniziato ai primissimi anni novanta, incidendo un bellissimo disco di arie antiche. Poi ha esplorato l’influsso che lo stile italiano ha esercitato su Beethoven, Haydn, Mozart, Schubert, Gluck. Poi ci sono stati Vivaldi, Salieri, gli oratori romani come centro d’irradiazione musicale su tutt’Europa. Poi un primo excursus sulla scuola napoletana dei napoletani e affini (Porpora, Leo, Araia, Caldara, Giacomelli). Poi Steffani, il veneto allievo di Cavalli e di carriera tedesca coronata dagli anni a Brunswick come maestro di cappella degli Hannover cui gli succedette Händel. E adesso un filone del tutto inedito: l’opera napoletana immigrata in Russia per volere delle tre Imperatrici (Anna, Elisabetta e Caterina la Grande) che, nel proseguire l’apertura all’Occidente avviata da Pietro il Grande, introdussero a corte la musica italiana con gran dispiego di mezzi e oculatezza nelle scelte. Alla prima compagnia giunta nella Pietroburgo fresca di costruzione, quella dei Ristori padre e figlio, si succedettero una lunga teoria di compositori italiani (da Domenico all’Oglio allievo di Vivaldi e Tartini, a Francesco Araia; da Giovanni Locatelli a Vincenzo Manfredini, da Baldassarre Galuppi a Domenico Cimarosa) affiancati – Caterina era pur sempre nata, cresciuta e educata a Stettino – da tedeschi come Hermann Raupach che scrisse la prima opera su libretto russo, Altsesta (che poi sarebbe Alceste). Ampio materiale, quindi.
Cecilia Bartoli lo presenta come sempre suole: pagine poco note (stavolta proprio sconosciute, essendo tutte prime registrazioni) organizzate in guisa di gallerie d’affetti, di composite categorie sentimentali utili a gettar luce esauriente su di uno stile, un gusto, una civiltà musicale. E proprio in quanto tali la Bartoli le esegue. Nemmeno sto a dire quanto brava sia una cantante che è sulla breccia da venticinque anni, e simile distanza non la reggi se non hai non solo una tecnica, ma una gran tecnica, nonostante il parere contrario di certe starnazzanti cocorite soprattutto milanesi.
Il virtuosismo più spericolato (nella splendida “O placido il mare” di Raupach, c’è una coloratura rapida inframmezzata da pause quasi sbigottite a celebrare la forza possente e maestosa del mare squassata all’improvviso dalla furia del vento: elettrizzante) trattato mai come gloria vocale autoreferenziale bensì come mutevole trascolorare di sensazioni, nel quadro di una vorticosa, inesausta esultanza espressiva che la magnifica orchestra di Fasolis tira a lucido (le lunghe introduzioni alle arie sono veri e propri concerti in miniatura che provano l’altissima civiltà strumentale che regge la scuola napoletana): un’esultanza che è categoria barocca quant’altre mai, e che nel sorriso musicale, nell’intensità comunicativa della Bartoli, qualità invece subito e da sempre riconducibili a lei, rivivono e splendono in modo portentoso.
Elvio Giudici