Vinci – Catone in Utica

interpreti M.E. Cencic, F. Fagioli, J. Sancho, V. Sabadus,
 V. Yi, M. Mitterrutzner 
direttore Riccardo Minasi
ensemble Il Pomo d’Oro    
3 cd Decca 4788194

 

Catone-in-Utica

Si sospetta che Metastasio e Vinci, magnifica accoppiata da poco emersa nel genere operistico serio, intendessero provocare il viziato pubblico romano quando nel 1728 vararono la loro terza fatica comune: Catone in Utica. Scelta inconsueta di un eponimo tenorile, che nel finale entra in scena sanguinante e ci resta per un bel pezzo a rantolar cantando; nemmeno Piovene e Gasparini avevano osato tanto nel loro Tamerlano del 1711, la cui onda lunga colpirà nel 1724 perfino Händel. Lungo ritardo nell’arrivo delle arie solistiche al primo e al secondo atto, loro drastica abolizione nel finale; ma in compenso tanti dialoghi in (curatissimo) recitativo secco e introduzione sperimentale di quello accompagnato. Più che al solito “dramma eroico” con lieto fine garantito, siamo di fronte a una tragedia per musica, tanto estranea ai costumi dell’epoca da non superare di molto la ventina di re-intonazioni, e spesso in forma addomesticata, come quella vivaldiana del 1737 dove il lieto fine è appiccato a forza con la candida motivazione: “Affine di rendere il drama più breve e più lieto nella presente stagione di primavera si ommette la morte di Catone”.
Temiamo però che al baroccofilo medio tali audaci innovazioni drammaturgiche interessino meno di un casting che può apparire pruriginoso ma riflette (quasi) fedelmente le peculiari usanze dei teatri romani nel Sei-Settecento, quando anche i ruoli femminili erano affidati a maschi en travesti. Diciamo “quasi” perché si trattava di giovani castrati e non degli odierni falsettisti; surrogazione non del tutto pacifica, ma negli ultimi anni resa più credibile da una generazione di fenomeni quali l’argentino Franco Fagioli, cui poco o nulla manca per passare da mezzoprano “naturale” secondo gli opposti usi linguistici antico e moderno.
Nella parte di Cesare, scritta in origine per Carestini, costui sviluppa a meraviglia le tre corde espressive del personaggio: l’eroica, l’amorosa e la magnanima; appena un passo dietro lo seguono Max Cencic (Arbace, languido amante respinto ma di buon fondo etico) e Vince Yi, un’Emilia sopranile carica di femminilità perversa. Quando ancora si chiamava Cornelia nel Giulio Cesare di Händel e cantava da mezzo, la vedova di Pompeo seduceva gli uomini suo malgrado; ma pare che nel transito da Alessandria a Utica ci abbia preso gusto, ovviamente a fini di giusta vendetta. Non del tutto depurato da qualche neo nel registro più acuto e nella dizione, Valer Sabadus (Marzia) si conferma vocalista di grandi potenzialità ancora in via di sviluppo. Nel reparto maschi veraci, altra conferma del roccioso Juan Sancho nel ruolo titolare e rivelazione di Martin Mitterrutzner (Fulvio), tenore graziosino capace di sfoderare su due piedi acuti lunari. Tutti poi versatissimi in agilità e da capo variato. Al cast ideale ben risponde Il Pomo d’Oro sotto la guida di Riccardo Minasi: sempre chiaro e flessibile nell’accompagnamento, sezione di continuo impreziosita dalla tiorba virtuosa di Simone Vallerotonda.
Carlo Vitali


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306 Novembre 2024
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