Verdi Aida interpreti A. Harteros, J. Kaufmann, L. Tézier direttore Antonio Pappano orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia auditorium Parco della musica ROMA Verdi Aida interpreti K. Lewis, M. A. Rachvelishvili, M. Pisapia direttore Zubin Mehta regia Peter Stein teatro alla Scala MILANO
La disfida delle Aide tra Scala e Santa Cecilia la vince Roma. Al netto delle differenze al nastro di partenza: un’opera in forma di concerto come esito finale di una registrazione discografica (Warner classics) da una parte. Dall’altra un nuovo allestimento di un capolavoro del melodramma italiano, ambito in cui la gestione Pereira intende investire nel futuro le migliori energie.
Però la Scala parte decisamente col piede sbagliato amputando la partitura di Verdi: il regista Peter Stein elimina i ballabili della scena del trionfo e Zubin Mehta avalla questa sconcertante decisione sotto lo sguardo comprensivo del direttore artistico (sempre Pereira). Motivazioni plausibili? Non pervenute.
Invece Aida oltre a essere debitrice dell’estetica del grand opéra e delle sue seducenti ed effimere decorazioni è opera di simmetrie. Una costruzione perfetta che incastona il vissuto dei personaggi in imponenti impalcature drammatico-musicali: quasi a volerlo comprimere, schiacciandolo. I primi due atti costituiscono un blocco unico e simmetrico di quattro scene, con le “notturne” impregnate di esotismo incorniciate da quelle solari, pubbliche, celebrative. E dove temi e motivi tornano a edificare imponenti costruzioni, come il “Numi pietà” che sigla la fine della prima e terza scena. Nella cosiddetta scena del trionfo i ballabili sono la parte centrale di una forma tripartita: rottamandoli, l’arco crolla.
Di questa natura composita Pappano ha dato a Roma una ricreazione magistrale. La sua Aida vive di grandi campiture in cui i singoli numeri musicali sono culmini drammatici ed espressivi non autosufficienti. Ci è riuscito con un’idea dell’opera fortemente drammatizzata e ricca di contrasti, ma anche con un perfetto senso dell’ineluttabilità dei tempi e degli eventi, in un fluido gioco di sospensioni e urgenze, di rubati e strette perentorie. Anche le parti “esotiche”, restituite dell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia con miracolosa trasparenza, non vivono di per sé – come epifanie di scritture e climi di là da venire – ma per la loro efficacia nello scacchiere di pieni e di vuoti, di accelerazioni e allentamenti.
Se Pappano pensa Aida in senso orizzontale, come racconto teso e dinamico, Zubin Mehta ne assapora le verticalità. Mehta coglie l’altro aspetto cruciale dell’opera, la polifonia di sentimenti e situazioni. La loro compresenza dolorosa. Non solo nei pezzi d’insieme, duetti terzetti ensemble qui eccezionalmente numerosi, ma nella dialettica tra voci e orchestra: gli stacchi di tempo più lenti liberano infatti sottotesti vocali e strumentali inediti, emotivamente tortuosi. Irrisolvibili. E ciò avviene grazie anche alla superiore sensibilità degli orchestrali scaligeri, laddove i ceciliani vincono per smalto e compattezza dell’insieme (mentre i coristi, per emissione, “corpo” e dizione, sono eccelsi a entrambe le latitudini).
Sulle voci invece – premesso che la sala Santa Cecilia del Parco della musica, senza le “quinte” teatrali, penalizza in maniera vistosa i cantanti – non c’è confronto. A Roma Jonas Kaufmann, al debutto nella parte, è un Radamès sensibilissimo, pronto a “inchiostrare” la voce con colori bruniti o ad assottigliarla come nel si bemolle della cavatina d’esordio: perfettibile nell’aggancio ma vertiginoso nello sfumato. Le iperboli drammatiche che inondano la sala non mancano, ma a fare la gioia di chi comprerà il disco è il suo canto fraseggiato, pastoso, sempre incentrato sulla parola. Il contrario di Massimiliano Pisapia che alla Scala arriva a sostituire Fabio Sartori con un Radamès solare e muscolare, inerte e poco resistente.
Le Aide deludono entrambe: meglio la romana di Anja Harteros, con la sua linea elegantemente patinata, della milanese di Kristine Lewis, dalla pronuncia indistinta e dalla vocalità frantumata. Delle due Amneris le preferenze vanno invece a quella scaligera: perché Anita Rachvelishvili punta sull’accento e la costruzione teatrale del personaggio, mentre Ekaterina Semenchuck sull’esibizione “pettorale”: iperdrammatica nelle intenzioni, cavernosa nei risultati. Un’eccezione nel cast ceciliano, tutto piuttosto “lirico”, dove emergono anche l’Amonasro “dicitore” di Ludovic Tézier e l’elegante Ramfis di Erwin Schrott. D’altra parte la Scala paga il pegno a una “star” al tramonto come Matti Salminen, Ramfis da pensionare, e si rifà con un Re senza retorica, persino insinuante, di Carlo Colombara.
Al Piermarini l’impostazione scenografica delle prime situazioni cattura: un’Aida catacombale, colta nelle profondità delle piramidi dai cui anfratti filtra appena la luce esterna e nelle cui oscurità si celebrano indecifrabili riti misterici. Tabula rasa rispetto ai luna park scaligeri recenti e primo passo per centrare la rappresentazione di individualità sconfitte di fronte a poteri imperscrutabili e immensi. I quadri successivi però sono pasticciati, indecisi tra intriganti astrazioni ed antichi trionfi. Così come la regia vera e propria: concentrata più sul gesto che non sul bozzetto, è vero. Più lavorata nei rapporti. Ma incapace di azzerare di quei gesti la retorica, le ridondanze, la convenzionalità. Verdi meriterebbe di affrancarsi dall’operismo registico: ma Peter Stein – proprio lui, un maestro del teatro di parola – sembra sempre più deciso a farcelo restare.
Andrea Estero