Beethoven
Fidelio
interpreti N. Stemme, J. Kaufmann
direttore Claudio Abbado
orchestra Lucerne Festival
regia e drammaturgia Tatjana Gürbaca
auditorium Kkl
Wagner
Tristan und Isolde
interpreti V. Urmana, A.S. von Otter
direttore Esa-Pekka Salonen
orchestra Philharmonia
regia Peter Sellars
video Bill Viola
auditorium Kkl
LUCERNA
LUCERNA – Come dedicare un festival musicale a “Eros” ed escludere proprio l’opera? Tanto vale cogliere l’occasione per infrangere il divieto, si fa per dire, e portare nel tempio dell’arte sinfonica il teatro musicale. Così accanto alla consueta e spettacolare infilata di performance orchestrali, Lucerna – in attesa di veder nascere un nuovo spazio dedicato alle rappresentazioni – ha aperto alle seduzioni del canto “lirico”. Certo per ora nelle forme più compatibili del dramma musicale. E dei cosiddetti predecessori.
Ben scelti nelle loro parallele convergenze i due titoli. Amori speculari (coniugale e “sano” l’uno, pericoloso e distruttivo l’altro), generi operistici differenziati, ma una comune dimensione proiettata tutta sull’interiorità, che ben si sposa con le soluzioni semisceniche individuate per l’allestimento. Affini sì nella riduzione degli elementi scenografici, ma davvero distanti negli esiti. Per dirla tutta quella individuata per Fidelio da Tatjana Gürbaca (autrice anche di una nuova versione ridotta dei dialoghi) era per un verso funzionale all’esecuzione, risolvendo la drammaturgia nella varia dislocazione dei personaggi in uno spazio sovrastato da cappottoni e stracci ammassati come in una installazione contemporanea (allusione alla nudità e dei prigionieri); ma per l’altro distorcente, a causa dell’anomala posizione della “scena” dietro l’orchestra pur ridotta nei ranghi. Tutt’altra cosa l’invenzione teatrale frutto della collaborazione tra Peter Sellars e Bill Viola per Tristano, nata a Parigi e portata in giro per il mondo, ora con il marchio della Philharmonia Orchestra e la presenza catalizzante di Esa-Pekka Salonen. Qui era straordinario il dialogo tra la rituale gestualità dei personaggi in carne e ossa incaricati di ridurre ai minimi atti la lettera del dramma, e le altrettanto ieratiche evoluzioni dei video creati da Bill Viola, destinati invece a dare corpo e immagini all’azione interiore. Una drammaturgia parallela per la quale Viola dichiara di ispirarsi alle cerimonie di preparazione funebri delle civiltà orientali (di cui Wagner, proprio negli anni del Tristano, era rimasto suggestionato): purificazione, risveglio del Corpo di luce e dissoluzione di sé, uno per ogni atto dell’opera. E se la loro coerenza narrativa è decisiva per evitare il rischio dell’illustrazione didascalica, funzionano anche alcune speciali coincidenze. Anzi commuovono. Come quando la morte di Isotta è visualizzata dall’effervescente scioglimento di un corpo umano. Mai il senso del raggiunto appagamento e dissoluzione, celebrato dalla musica, era stato rappresentato in maniera così appropriata e poetica.
In (studiato?) contrasto con la rappresentazione tutta simbolica, c’è la direzione di Esa-Pekka Salonen, che si conferma un grande, grandissimo, direttore. Il suo Tristano non è solo lento e pensoso, proiettato sugli avvitamenti filosofici, ma neanche solo vitale e teatrale. Queste due polarità le comprende in una sintesi miracolosa fatta di arcane rarefazioni e improvvise, travolgenti, accensioni. Nel Preludio attacca pianissimo, analizza il suono; ma quando quell’inizio ritorna la febbrile irruenza non si ferma. Il tema ne risulta travolto. Ed emozionanti risultano dovunque le inventive spazializzazioni (su tutte gli sgargianti e “opprimenti” ottoni collocati nelle gallerie in fondo alla sala all’ingresso di Marke), dominate con magistrale tecnica direttoriale grazie anche a una Philharmonia duttilissima al suo gesto. L’unico neo? Un cast non eccelso. Violeta Urmana e Gary Lehman hanno tutte le note e (quasi) tutte squillano bene. Rasilainen e la von Otter sono per peso e volume un gradino sotto. Più in alto i Marke di Matthew Best. Per il resto c’è poco da dire.
A Reggio Emilia, e poi a Ferrara, il Fidelio di Abbado aveva una stessa, travolgente, energia, certo ottenuta con mezzi stilisticamente differenti. Qui, invece, forse per valorizzare al massimo quelle voci eccezionali ma collocate dietro l’orchestra, il direttore milanese sceglie la strada opposta della decifrazione del “genere”: un Singspiel, prima che un “dramma musicale”. Anche nel secondo e più vibrante secondo atto. Così la tenuta e gli stacchi d’orchestra compongono un discorso dalla punteggiatura rifinita ma meno urticante, da cui germina il miracolo della voce: quella sensibilissima di Jonas Kaufmann, l’altra svettante, ma più avara per timbro e “peso” emotivo, di Nina Stemme.
Andrea Estero