interpreti M. Carosi, S. Ganassi, G. Kunde, S. Orfiladirettore Kent NaganoAuditorium Parco della Musica
La nuova iniziativa autunnale dell’Accademia di Santa Cecilia è il Festival del Belcanto: cui ha arriso grande successo grazie anche all’intelligenza d’un cartellone che alternava eventi come il recital di Cecilia Bartoli e di Mariella Devia, intriganti estrosità quali il concerto di tre tenori belcantistici, per poi concludere alla grande con una Norma in forma di concerto. Qui la novità (che proprio la forma di concerto consente di proporre esaltandone il contenuto musicale grazie alla possibilità offerta da orchestra di questo calibro) stava nel debutto italiano di Micaela Carosi quale protagonista e in quello di Kent Nagano nel repertorio italiano primo Ottocento.
Alquanto interlocutorio, quest’ultimo. Sonorità vibranti, certo, serrate attorno a blocchi di robusto spessore drammatico dove molti particolari di concertazione offrivano diversi spunti da meditare. Ma la particolare sintassi belcantista, coi suoi accenti e sfumature definiti da rubati, sottili alternative dinamiche, assottigliamenti e rinforzi atti a introdurre quel “soprapensiero” melanconico, sfinito, segretamente sensuale (quello dove a turbare è molto più l’accenno dell’affermazione esplicita, d’altronde impensabile): tutto questo, nella direzione a rompicollo di Nagano – francamente grotteschi, taluni passi del second’atto – non s’avvertiva.
Grande voce, quella di Micaela Carosi, a riprova che tonnellaggi siffatti non sono affatto spariti, come si sente talora dire. Molto bello il colore timbrico; solida l’emissione che poggia su d’un fiato controllato e proiettato come tecnica comanda, con affondi al grave di fascinosa carnosità e con passi di coloratura sgranati più che bene, specie ove si consideri l’abituale repertorio di Tosche, Forze, Manon e bruscolini consimili: segno, appunto, di tecnica ragguardevole che senza dubbio migliorerà ove sistemasse meglio certe rapide proiezioni in alto a piena voce, dove la spinta di gola è al momento alquanto eccedente. Quello che invece urge sistemare, giacché interessa non solo il repertorio belcantistico che sospetto resterà una bella ma circoscritta parentesi, è l’accento: la buona dizione, di per sé, può favorirlo, ma al presente le consonanti cantano poco o punto, non differenziandosi quindi gran che dalle vocali che scivolano impastandosi le une alle altre e impedendo la costruzione di quel fraseggio autentico che solo la scolpitura della parola può consentire.
Esempio probante, al riguardo, l’offre come sempre Sonia Ganassi: Adalgisa ormai di sicuro riferimento, dove seduzione timbrica, impeccabilità e morbidezza di linea, perlacea sgranatura delle fioriture, acuti di raro fulgore sono tutte cose eccezionali, ma rese emozionanti e personalissime dalla sovrana varietà di un accento costruito con un’attenzione fenomenale alla parola. Cosa che esalta anche il Pollione di Gregory Kunde facendo passare in secondo piano la povertà timbrica, in virtù anche della tecnica di tutto rispetto. Di nessun rilievo, invece, l’Oroveso piccino picciò di Simon Orfila.
Giancarlo Cerisola