interpreti A. Siragusa, G. Buratto, J. Pratt direttore Matteo Beltrami regia Fabio Ceresa teatro dell’Opera
FIRENZE – Per una delle rare opere romantiche a lieto fine, I Puritani, il regista Fabio Ceresa ha impostato il suo lavoro per l’Opera di Firenze in un costante clima funereo, con personaggi che emergono e rientrano nelle tombe, con cavalieri che in occasione delle nozze danzano giocando con enormi veli grigi, con la massa corale che conclude il felice ritrovamento tra Elvira e Arturo stramazzando a terra, nelle profonde tenebre. Una scelta senza dubbio molto pensata, nel segno di una relatività del tempo, della continuità tra vita e morte, della diversa lettura degli eventi che investe ogni personaggio, come Ceresa ha voluto spiegare; ma che non sempre è apparsa del tutto leggibile (come gli spunzoni che trafiggono il fondoschiena negli abiti di Elvira): il risultato è stato qualche buu a fine spettacolo. Peccato, perché al di là degli arzigogoli di pensiero che hanno sotteso e resa ambigua l’operazione registica, questi Puritani di Ceresa possiedono un innegabile fascino visivo, a partire dallo splendido fondale (grigio, ça va sans dire) disegnato da Tiziano Santi: un’arcata di chiesa gotica vista dal basso e stravolta, che al terzo atto (quello dello happy end!) si dissolve in un paesaggio lunare popolato da figurazioni fantasmatiche. E poi, i bellissimi toni degli abiti che Giuseppe Palella ha destinato alle masse corali, giocati su varie gamme di marrone e grigio evocanti la pittura romantica inglese e fors’anche quella di Rembrandt, grazie alle luci dorate e argentee disegnate da Marco Filibeck. Ed ampi movimenti di massa hanno come sovrastato la storia d’amore cantata da Bellini, con un suggestivo respiro corale affidato agli ottimi organici del Maggio, creando un senso di romantica ballata. Alla quale la compagnia di canto non ha dato un apporto straordinario: d’accordo, I Puritani non sono un’opera popolare, ma che un’aria come “A te o cara” non si prenda che qualche sbiadito applauso vorrà pur dire che la prestazione di Antonino Siracusa, pur corretta, con tutti i sovracuti ben scanditi, non è stata trascinante; ed anche la scena della pazzia nell’interpretazione di Jessica Pratt non ha trovato particolari momenti di commozione: la sua è stata un’Elvira tecnicamente elegante, con bei passi di virtuosismo, ma il cuore, le viscere, lo spessore vocale, gli accenti espressivi che pure anche il belcanto pretende, impone, dov’erano? Discreto il Giorgio di Gianluca Buratto, baritono con qualche suono duro e ingolato, e bellissima la prestazione di Gianluca Margheri, un Gualtiero di nobilissimo spessore e vocalità suadente. Se la commozione, il patetico, l’estasi amorosa erano registri che scarseggiavano nelle interpretazioni di soprano e tenore, lo stesso dicasi della direzione di Matteo Beltrami: prestazione corretta, sicuro rapporto con il palcoscenico; ma Bellini ha un fascino, un’intimità che, al momento, il giovane maestro non ha ancora ben colto. Nella buona accoglienza complessiva che questi Puritani hanno ottenuto da un pubblico folto ma forse un po’ distratto, qualche dissenso c’è stato anche per lui.
Cesare Orselli