BERGAMO
[pianoforte] Denis Matsuev
[direttore] Yuri Temirkanov
[orchestra] Filarmonica di San Pietroburgo
[teatro] Donizetti
[festival] Arturo Benedetti Michelangeli
The joy of music, titolo del libro-bestseller di Bernstein (90esimo della nascita) tratto da una serie di trasmissioni televisive di culto, è stato scelto come frontespizio del 54esimo Festival pianistico Arturo Benedetti Michelangeli di Brescia e Bergamo, concentrato sull’accostamento Chopin-Bernstein, o più simbolicamente sulla documentazione/confronto a distanza tra pianoforte del vecchio e del nuovo mondo. L’idea di partire dalla forza comunicativa per parlare di musica, peculiare all’approccio esecutivo e didattico di Bernstein, è in fondo anche la motivazione forte, seppure meno esibita sul piano fisico e fabulatorio, di Yuri Temirkanov che in onore del Festival Michelangeli – e per il piacere di ricevere sul palcoscenico del Teatro Donizetti, il “Premio Abbiati” per la Traviata di Parma – ha compilato un sorprendente programma a stelle-e-strisce, purtroppo ridisegnato alla vigilia, con la dolorosa perdita della gershwiniana Rapsodia in blu. Il tracciato s’è avvalso della complicità del più spontaneo apostolo di americanismo musicale con passaporto russo, Rachmaninov. Riaprendo in questo modo la discussione sulla reale esistenza di una musica americana, argomento su cui a ragion veduta e con acume intervenne più volte proprio Bernstein, rivendicandone l’inevitabile meticciato.
Temirkanov al solito parla solo dal podio, con gestualità spoglia ma vibrante; ma l’opinione era chiara. Prima accostando, nel parodismo sintetico dell’ouverture di Candide, lo slancio danzante da cosacco a una svelta cantabilità dalle tinte vistosamente esoticheggianti. Poi ricreando come nuovo il Secondo concerto di Rachmaninov. Facendogli perdere un po’ il sapore della Russia dov’ebbe la prima esecuzione (1902), quasi posponendolo stilisticamente fino ad apparentarlo col Terzo nato sei anni dopo sulla nave da crociera che portò il compositore destinato a morire a Beverly Hills lontano dalla patria, di cui si sarebbe però sentito sempre un nostalgico cantore. Ecco che, con la complicità dello scatto pianistico non ordinario di Denis Matsuev (che poi ha voluto esagerare con una trascrizione dal Peer Gynt di Grieg suonata in modo da mettere a repentaglio l’incordatura dello strumento e accendere il pubblico), quella lettura dell’inflazionatissimo e strausurato Concerto ha dosato gli echi del virtuosismo da salotto imperiale e del facile romanticume melodico lavorando sulla vividezza del fraseggio del pianoforte e dell’orchestra. Bastava una tacca in più o in meno di metronomo, una minore compiacenza nel condurre il dialogo tra solista e riprese tematiche collettive, il richiamo con le mani a una tinta generale acerba, a colori naturali e nervature sinfoniche rilevate. Certo, il tanto Ciaikovskij su cui poggiano i grandi gesti del Concerto (e che gli hanno garantito popolarità, profetando un gusto “musical-cinematografico” del futuro) c’era tutto, ma è quel Ciaikovskij che proprio Temirkanov ci ha insegnato a cercare non in superficie ma nelle inquietudini segrete, e nelle minute sottolineature. Viceversa, nelle Danze sinfoniche musicale compendio dello spontaneo disimpegno stilistico di Rachmaninov oltre che ultimo lavoro d’autore affidato all’orchestra, il direttore ha lavorato con impudicizia: liberando estri/effetti hollywoodiani, chiamando streganti virtuosismi d’assieme alla Filarmonica di Pietroburgo. Cercando con sapienza e scaltrezza poetica – attraverso lo sfoggio del mestiere del vecchio ma sempre grande (e spudoratamente corrompibile) orchestratore col passaporto oramai americano – di (s)mascherare quel peso nostalgico che gronda in ogni passaggio lirico, in ogni ombreggiata modalità armonica, nella forma stessa di questa moderna suite. Facendo sembrare audace, e in un certo senso moderno, l’impudente e ormai “corrotto” romanticismo di Rachmaninov.
Angelo Foletto