FIRENZE [interpreti] J. Gertseva, I. Mula, M. Alvares, I. D'Arcangelo [direttore] Zubin Mehta [regia] Carlos Saura [teatro] Comunale
L’esecuzione di Carmen proposta dal Teatro Comunale ad avvio operistico del suo 71° Maggio nella benemerita versione opéra-comique (sia pur con accettabili tagli al parlato) s’è avvalsa di belle carte di credito: Zubin Mehta, intanto, ha ottenuto dalla compagine fiorentina un suono costantemente penetrante, in grado di egregiamente registrare furori e malie, semmai perdendo forse qualche colpo nell’indagare la geniale plurivalenza bizetiana. Carmen non è solo dramma ma anche presagio di musical, come ci rammenta il suo prodigioso ossimoro; e mentre i colpi affondati da Mehta nei gorghi della concitazione (mirabilissimo atto IV) erano imperdibili, la levità e l’afrore gitano che in quest’opera miracolosamente convivono sembravano assunti sotto il comune denominatore di una generica brillantezza. Beninteso, non si tratta di esser ingenerosi verso la grande prova del maestro indiano; ma quando si ha da vedersela con tal autorevolezza direttoriale si ha il diritto di esigere il valico delle colonne d’Ercole, né più e né meno.
Coi tempi che corrono il teatro fiorentino ha convocato poi un team vocale cui sarebbe vano opporre alternativa: Julia Gertseva ha voce e fisico per impersonare la protagonista evitando anche le secche della sfogatezza; Marcelo Alvarez è attualmente uno dei pochi tenori in grado di restituire, se non la finezza, l’energia e il peso di José e Ildebrando D’Arcangelo ha riportato Escamillo alla sua tessitura di basso cantante, mentre non era da sottovalutare la prova del duo Gemma Bertagnolli-Bracha Kol nelle parti di Frasquita e Mercédès. Ma non si mancherà di rispetto a nessuno facendo menzione a parte per la Micaëla musicalissima di Inva Mula: la reazione del folto pubblico della ‘prima’ ha dato conferma del privilegio del cronista. Della regia di Carlos Saura non c’è molto di che discutere salvo che per rilevare la sproporzione fra prestigio del nome e inconsistenza del risultato. Era lecito scegliere quel progetto scenografico non naturalistico a base di cubi e parallelepipedi, ma a patto di farvi conseguire un gioco di movimenti e di situazioni consci della verità teatrale di Carmen; e invece, proprio nel momento in cui la struttura scenica pretendeva una Spagna astratta e geometrica, veniva sciorinato in palcoscenico, fra ventagli, inchini e scappellamenti, l’intero campionario di spagnoleggiamenti visto le mille e millanta volte. Ed è venuto il dubbio che se Julia Gertseva, nonostante il bell’aspetto, esibiva lo charme di un sedano e Alvarez e D’Arcangelo reiteravano mosse e mossette d’antica memoria, la colpa potrebbe imputarsi a chi non ha saputo destare in loro il senso della singolare ‘operetta tragica’ in cui stavano agendo. Disse un giorno Bizet ai gestori dell’Opéra-Comique che gli avrebbe proposto della ‘merde’, riferendosi certo alla potente carica di eversività del suo capolavoro; ecco, fra la impaginazione splendidamente pettinata di Mehta e gli stereotipi di Saura quel che in questa Carmen è andata dispersa è stata, per l’appunto, la ‘merde’.
Aldo Nicastro