Un uomo, in un’opera, una donna, nell’altra. Sono entrambi vittime del conflitto tra eros e peccato. Affrontano situazioni irreali, divisi tra realtà e sogno. E vivono in una città “morta” o si aggirano in una cripta di catacombe come dei morti viventi.
Sono i protagonisti di due titoli che il caso ha voluto che si programmassero negli stessi giorni, alla Scala e all’Opera di Roma. In due allestimenti d’autore, di Graham Vick e di Emma Dante. D’altra parte Die tote Stadt di Korngold e L’Angelo di fuoco hanno in comune anche questo: la radice nella letteratura simbolista dei primi anni del Novecento. Korngold e Prokof’ev si trovano tra le mani due soggetti maledetti, decadenti, intrisi di cultura “freudiana”, quando quella temperie – siamo ormai negli anni Venti – era trascorsa: “il mondo di ieri” avrebbe detto Stefan Zweig. E ne danno una lettura opposta: nel segno dell’eclettismo Korngold, che fonde modernismo e verismo vocale, stile “floreale” e operetta, Mahler, Strauss e Puccini. Nel segno della radicale sperimentazione Prokof’ev, che intinge il simbolismo russo nella lingua incandescente della nuova oggettività.
L’uomo della Città morta è Paul, un ricco borghese che non riesce a liberarsi dall’ossessione della moglie morta prematuramente, e si è ritirato in uno stile di vita cimiteriale, circondato dalle di lei reliquie: solo con l’alibi di una somiglianza sorprendente può giustificare l’attrazione irresistibile ma continuamente repressa per una ballerina, Marietta, che proclama con ingenua spontaneità le gioie dell’amore (l’assonanza con Zerbinetta è voluta?). La donna dell’Angelo di fuoco è Renata, una derelitta in preda all’ossessione per un demone che le appare in sogno e da cui vorrebbe essere posseduta: angelo custode e oggetto irresistibile del desiderio. Con identica, morbosa, sovrapposizione di sacralità e perversione.
La Fabbrica dei sogni
Vick e Dante costruiscono su queste drammaturgie spettacoli d’alto profilo registico. Scansando il rischio di un’adesione al clima malato, brumoso, estenuato d’origine: d’altra parte la musica va in altre direzioni. E optano tutti e due per una accentuazione “politica” delle vicende. Graham Vick raggela infatti la scena: la sua Bruges è fredda, rigorosa e “mentale” come lo studio di uno psicanalista. E si serve di una portentosa macchina scenica e videografica (Stuart Nunn) per dare corpo alle visioni del protagonista: durante il sogno Paul è illuminato da una selva di riflettori. Solo che la “fabbrica dei sogni” che l’autore conoscerà bene (Korngold diventerà uno dei grandi autori di Hollywood) è in realtà dispensatrice di proiezioni libidinose – le prove della compagnia di Marietta sono uno sboccato sexy Kabarett – e incubi tremendi: nella portentosa scena della processione, devoti, penitenti e beghine sono travolti e seviziati da SS e giovani hitleriani sotto un gigantesco Trionfo della morte bronzeo.
In Korngold il lungo episodio onirico – che si conclude con l’omicidio di una irriverente Marietta per mano di Paul – doveva essere risolutivo e terapeutico: consentire al suo protagonista di “crescere” – dopo il risveglio – imparando a distinguere morte e vita, lutto e passione, ricordo e futuro. Vick invece non lavora sugli effetti traumatici. La vera catarsi arriva sulla dolcissima meditazione finale, quando Paul confida di voler provare di nuovo a vivere ma il “set” spettacolare – la fabbrica dei sogni, appunto – viene smontato e il protagonista si avvia in futuro vuoto e oscuro: senza più visioni, né illusioni. È il momento più intenso e toccante.
Breakdance sì, Madonna addolorata no
Nell’Angelo di fuoco Emma Dante ha un’idea geniale: il demone si materializza in un imprendibile breakdancer (l’acrobatico, magnifico, Alis Bianca). Che volteggia a testa in giù ardendo come una fiamma. E si sdoppia in entità multiple. Spettacolare la scena del duello tra il cavaliere Ruprecht – lo spasimante respinto di Renata – e il conte Heinrich, che la ragazza crede l’ultima incarnazione del demonico Madiel’ (movimenti coreografici Manuela Lo Sicco): in simbiosi con il nervoso, ossessivo, ostinato di Prokof’ev.
La Colonia cinquecentesca rivive nei sotterranei palermitani dei Cappuccini (scene di Carmine Maringola), con un efficace realismo macabro a tratti fin troppo “fantasy”. La stessa sensazione di estraneità di riferimenti visivi – in rapporto a una temperie d’origine che rimanda ai Demoni di Dostoevskij – si ha alla fine, quando Renata è accusata di stregoneria e muore trafitta da sette pugnali come una Madonna Addolorata. Prezzo da pagare per la penetrante annotazione “di genere”: allora come oggi, in Russia come al Sud, una donna che chiama col suo nome il Desiderio è pericolosa. Deve soccombere alla persecuzione maschile.
Quello che manca – al di là del sincretismo antropologico-culturale – è proprio l’ambiguità femminea della protagonista, abbigliata da Vanessa Sannino come la monachella imbalsamata nella cripta palermitana: decisamente poco erotizzante. Quello che abbonda, invece, sono i mimi della Dante (beghine, suore in rosso cardinalizio o deità velate) che si aggirano sul palcoscenico come altri fantasmi, con tocchi di (in)volontario surrealismo. Sarebbero bastati nei cambi di sipario con le loro caustiche scenette. La stessa civettuola comicità attribuita al ruolo muto di Heinrich è sopra le righe.
Che c’è di nuovo? Grigorian e Gilbert
Il confronto è dunque anche una questione di personalità: alla Scala nella parte di Marietta c’era la magnetica, ammaliante e vocalmente svettante Asmik Grigorian; e il sensibile, suadente anche se non sempre smagliante, Klaus Florian Vogt in quella di Paul. Cioè due leoni da palcoscenico, a cui si sommava la classe scenica e vocale di Markus Werba nella parte dell’amico pittore Frank (e di uno stralunato Pierrot). Adeguati i solisti dell’Accademia scaligera nelle figure della compagnia di Marietta. A Roma la Renata di Ewa Vesin è invece sì irreprensibile ma meno conturbante; e il Ruprecht di Leigh Melrose tutt’altro che imprudente e guascone: hanno più sapore i ruoli minori, Mefistofele e Faust (Maxim Paster e Andrii Ganchuk, del Young program “Fabbrica”), l’indovina di Mairam Sokolova o l’Inquisitore di Goran Juric.
A queste prerogative la buca reagisce in maniera opposta, con prove d’alta levatura: Alan Gilbert infiamma l’orchestra della Scala prendendo di petto l’esuberante scrittura di Korngold e rivelandone il polistilismo fino in fondo. Asciugando, ma non attenuandone, le ridondanze: con moderna, pragmatica, disinvoltura. Mantenendo la partitura nel suo vitale punto di equilibrio tra dorature orchestrali, risonanze popolari ed estenuati lirismi. Una frenesia che alla fine sfianca gli ottoni scaligeri. Alejo Perez a Roma, al contrario, confeziona un Prokof’ev classicizzato, di oggettività più trasparente che incandescente, che l’orchestra capitolina cesella: dando così voce al mysterium magico e incantatorio proveniente dagli iterativi meccanismi strumentali. Cori, preparati da Bruno Casoni e Roberto Gabbiani, in entrambi i casi smaglianti. Due spettacoli da vedere e da ricordare.
Andrea Estero
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