TORINOinterpreti M. Carosi, M. Alvarez, M. Cornetti, A. Antoniozzidirettore Renato Palumboregia Lorenzo Marianiteatro Regio“Cilea in controtendenza: scena e regia insensate, direzione muscolare, ma cast eccellente, se non eccezionale”
L’esatto contrario di quanto ormai accade quasi sempre: regia poco interessante, direzione impegnata a buttar giù macigni con la roncola, ma cast eccellente se non eccezionale tout court.
Si sa quanto sia sempre insopportabile e frignone il personaggio di Michonnet. Ma Alfonso Antoniozzi v’immette inedita dignità melanconica da intellettuale tutta sciolta in un canto morbido, pieno, sonoro, dal fraseggio articolatissimo. Dalla miniera inesauribile dei suoi accenti, memorabile quel “Morta!” conclusivo: topos del melodramma che, con lui, acquista l’asciutta, lancinante commozione della tragedia intima. Scena e regia insensate penalizzano Marianne Cornetti (farla stazionare su un lettino tutta infagottata in crinoline blu ad aspettare l’amante, o la butti sull’ironia alla Paolo Poli, o è esempio preclaro di sadismo registico): ma ha fior di voce ampia, morbida, facilissima nell’involo, di cui si serve per fraseggiare con estremo gusto anziché sbracare nel facile effetto delle tante gigione che vestono i panni della Bouillon.
Marcelo Alvarez è il miglior Maurizio che mi sia capitato d’ascoltare. Caratura tecnica di prim’ordine in fatto d’appoggio e proiezione del fiato rendono la linea ampia, piena, brunita e squillante (il pestifero la naturale scoperto di “bella tu sei”, ad esempio, che dato anche il dittongo scivola nove volte su dieci verso il belato, affidato com’è alla lamina argentea d’un canto a fior di labbro, è una gemma; il “russo Mencikoff”, oltre che sesquipedale schifezza musicale, è difficilissimo – ma fa e sol acuti, nonché lo scabroso si bemolle conclusivo, schioccano a meraviglia): ma colpisce soprattutto la patina d’indifesa melanconia, di tenerezza affettuosa effusa in mezzevoci magnifiche e in accenti sorvegliatissimi.
E naturalmente Adriana. Micaela Carosi, ogni volta che l’ascolti è meglio della precedente: canta tutto sul fiato, poggiato controllato proiettato così da imbrigliare l’ampiezza sontuosa d’una voce dal timbro già di suo bellissimo, ma che ancor più lo diventa espandendosi in cavate di simile accorta pienezza, scandite da dizione eccellente. I salti d’ottava ai sol di “Poveri fiori”; il la bemolle conclusivo del monologo, quasi sempre uno strillo, qui raggiante e fermo come il granito; imperioso e sonoro il sollecitatissimo registro centrale nel duetto con la Bouillon, su marosi orchestrali che Palumbo spingono alla tempesta: prodezze vocali, mai però in vetrina bensì mezzi espressivi. Languori, estenuazioni, contorcimenti strappaviscere, via nella soffitta veterolirica: urgenza espressiva, invece, pienezza passionale portata al calor bianco, umanità bruciante dominano da cima a fondo in questo ritratto da teatro moderno, capace di dare volto nuovo – e di strepitoso fascino – a volto reso vizzo e isterico da una frusta tradizione pseudodivistica.
Elvio Giudici