MILANO – Com’è labile il confine tra genialità e sbruffoneria. Teodor Currentiz, talentuoso e “creativo” direttore d’orchestra dalle interpretazioni rivelatrici e anticonformiste, tende più volte a superarlo. Quando plasma a Salisburgo una Clemenza di Tito da capogiro ma infarcendola di pezzi mozartiani estranei all’opera; quando incide una trilogia dapontiana disuguale eppure vertiginosa, affidandola in troppi casi a cantanti da minimo sindacale. A Reggio Emilia l’anno scorso ha proposto Le Sette parole di Haydn e lo Stabat Mater di Pergolesi con rara intensità ma distraendosi col volere i musicisti in saio monacale e pretendendo candeline pasquali in bocca al proscenio. Una mascherata. È successo di nuovo, ieri, nel corso dell’atteso concerto con cui debuttava alla Scala (stagione della Filarmonica). Currentiz prima dirige un’Ouverture delle Nozze di Figaro suonata tutta d’un fiato, eppure fraseggiata, “respirata”, con una naturalezza commovente. Poi, subito dopo, la ripete come bis di metà concerto a velocità raddoppiata, come una pellicola di vecchi film comici: il miracolo svanisce nella gara circense.
L’ambiguità d’intenti c’era già nel pezzo d’apertura, il Terzo Concerto per pianoforte di Beethoven, laddove la lettura antieroica – quel tema scultoreo in do minore che Currentzis sente in termini lirici e interiorizzati – era così esibita da rendere la trama strumentale inconsistente, al netto delle imprecisioni dei fiati d’epoca di MusicaAeterna e del remissivo pressappochismo del fortepiano di Alexander Melnikov. Come dire: a uno spunto poetico azzeccato non segue la capacità di variarlo e svilupparlo, contraddirlo e riaffermarlo. La Settima di Beethoven ha confermato nel peggiore dei modi queste premesse. L’“apoteosi della danza” è sentita da Currentzis in termini muscolari, effettistici, con gran dispendio di energia sui timpani e poche sfumature, se non il “volere ancora di più” preteso con gesti scomposti e teatrali rivolti ai suoi musicisti, tutti in piedi, agguerriti e adrenalinici come in una gara di giochi senza frontiere. La dialettica tra movimento e stasi, tra incessante scorrere e improvviso “soffermarsi”, tra ritmo e assenza di ritmo, con cui Beethoven costruisce uno dei suoi capolavori, Currentzis non la sfiora neanche. Allegretto e Scherzo passano uniformi e indistinti, senza solennità e senza scatti. L’Allegro finale è martellante: ma il ritmo è il contrario della pura ripetizione. La rigenerazione “rock” della routine che imperversa nei teatri e nelle sale da concerto – predicata da Teodor – la sottoscriviamo: ma se motivata dall’interno, attraverso scelte interpretative nuove e profonde; non se del giovanilismo esecutivo si ritengono solo gli aspetti più superficiali ed esteriori. Sul fronte del pubblico, entusiasmo alle stelle e qualche dissenso.
Andrea Estero
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