MILANO [interpreti] P. Marrocu, V. Priante, K. Begley, G. Bretz, E. Zhidkova [direttore] Daniel Harding [regia] Peter Stein [teatro] alla Scala
Il Prigioniero, opera d’impronta umanistica anni Cinquanta, e Il Castello del Duca Barbablù, capolavoro del teatro simbolista primo Novecento. Due mondi agli antipodi, eppure accostabili, sovrapponibili. Volendo, coincidenti. Il Prigioniero desidera la libertà, crede di poterla raggiungere, ma si illude; esattamente come Judit, l’ultima vogliosissima moglie del Duca che alla fine scopre un destino che mai avrebbe immaginato. Invece Peter Stein e Daniel Harding decidono di comporre un dittico dai colori e dalle pennellate contrastanti. Anche l’impianto scenico, tra il realistico e il pittorico del primo caso (Ferdinand Woegerbauer) e l’astratto del secondo (Gianni Dessì), si sdoppia in un due ambienti differenti (macchinosamente smontati e rimontati nel lungo intervallo): le porte della libertà ricercate e attraversate dal Prigioniero sono diverse da quelle dell’inconscio aperte da Judit. Nessuna somiglianza. E così sia.
Questo perché Peter Stein, al suo debutto al Piermarini, radica i due lavori nei contesti delle loro rispettive origini, senza liberarli e farli viaggiare. In Dallapiccola la cifra è realistica, quasi didascalica, nel racconto della terribile tortura a cui l’inquisizione sottopone il Prigioniero, l’illusione di aver conquistato la libertà. Dalla dimenticabile rappresentazione del racconto della madre (con il morphing del volto di Filippo II in un gufo, poi in un teschio), si passa alla scena claustrofobica di un protagonista quasi in scatola (una cella formato cubo, da teatro espressionista), che poi si apre sugli enormi spazi della tentata fuga attraverso il carcere e della notte stellata su cui si accende il rogo. Belli, e autenticamente dallapiccoliani, i riferimenti cristologici (il prigioniero è tenuto in grembo dalla madre come in una Pietà rinascimentale, poi mima la crocifissione, infine arde davanti a un fuoco proiettato nel perimetro vuoto di un polittico) che significativamente stridono con la presenza di simboli e apparati religiosi ovunque, ma soprattutto nelle sontuose processioni di flagellati utili ai mutamenti di scena. Sa essere ancora “scandaloso”, Stein: la Chiesa produce da sé i martiri che poi santifica e adora.
In Bartók al contrario il paradigma simbolista delle sette porte dai sette colori, dall’oscuro al chiaro e viceversa, ritorna con perfetta efficacia nella sua aderenza ai timbri evocati dalla straordinaria invenzione strumentale, arricchito dal ritratto di una Judit insistentemente morbosa. Ma della sua audace e borghesissima sete di conoscenza, così come di quel sapere gelosamente custodito dall’uomo Barbablù, continueremo a non sapere nulla.
La piena sintonia di Daniel Harding con l’orchestra e il coro della Scala, entrambi in forma smagliante, gli consente nel Prigioniero di trovare – dopo lo sferzante motto accordale di apertura – un suono sottile ma timbrato, pieno di risonanze e diffrazioni, nonostante la scrittura (che si dice) rigorosa. Liberando il giusto spazio voluto dalle evoluzioni declamatorie del canto. Mentre nel Barbablù l’arcano simbolismo della partitura raggiunge spessori sinfonici e una grammatura di segno espressionista. Dittico fronteggiante, come in Stein, ma a pannelli invertiti.
Nella compagnia di canto sono da ricordare Vito Priante, Prigioniero intenso anche se in balia delle cangianti dimensioni della scena, e Paoletta Marrocu, Madre vocalmente svettante e partecipata, mentre Elena Zhidkova è una Judit dalla voce sicura e dal timbro suadente. Meno a fuoco il Duca di Gabor Bretz.
Andrea Estero