MILANO – Un programma focalizzato su due classici viennesi, Haydn e Schubert, preceduto dall’accostamento – quasi una Suite – dei momenti orchestrali più famosi dell’Orfeo di Gluck costituiva l’impaginato del concerto diretto da Ottavio Dantone con la Filarmonica della Scala lunedì scorso. Le premesse esecutive di Dantone parlano chiaro: sonorità piuttosto secche, tempi veloci, poco vibrato, timpani in grande risalto e tanti altri accorgimenti che trasformano l’interpretazione propria del secolo scorso in qualcosa di sicuramente più vivo, più moderno, in linea con le ricerche portate avanti dalla musicologia oramai da diversi anni.
Non che queste scelte siano di per sé garanzia di una perfetta sintonia con autori e opere del passato, si sa, ma la sensibilità del nostro direttore è tale da garantire il successo di un concerto che non poneva particolari problemi di ascolto per il pubblico. Un pericolo, a dire il vero, esiste, ossia quello di equiparare il “mood” della Danza delle Furie a quello del drammatico sviluppo in minore nell’Andante della Sinfonia n. 104 di Haydn (la famosissima “London”) o ai disperati richiami che si colgono nella quarta sinfonia di Schubert (l’altrettanto famosa “Tragica”). Ma questo è il rischio dovuto alla particolare attenzione rivolta allo strumentale e allo stile esecutivo, che tendono a uniformare momenti musicali tra loro piuttosto differenti. È una questione di scelte, e chi preferisce ascoltare interpretazioni più classiche non ha che da rivolgersi al disco, dove si può davvero navigare attraverso una varietà di vedute ideali per tutti i gusti. Per Dantone le musiche scelte in questo programma hanno tutte, evidentemente, un denominatore comune che parte da un utilizzo dell’orchestra ai fini espressivi e attraverso una costruzione formale che fa capo alle regole della forma-sonata e che procede verso un ideale messaggio unitario. E la serata procedeva in maniera compatta, senza esitazioni, lasciando che fosse la musica stessa a confermare lo straordinario messaggio che ci proviene da un’epoca così lontana eppure ancora così attuale.
Una nota a margine: sembra che le generazioni di direttori d’orchestra che oggi si presentano nei maggiori teatri e sale da concerto non tengano in particolare conto alcuni parametri legati all’eleganza (e a volte alla chiarezza) del gesto. Vanno direttamente al sodo, contando molto di più sul lavoro di concertazione, di preparazione dell’insieme che sull’apparenza di un elemento cui forse in passato si è dato troppo peso. L’imitazione di un gesto alla Kleiber o alla Karajan oggi sarebbe forse fuori luogo, ma almeno l’eleganza contenuta di un Abbado, la precisione infallibile di un Muti aggiungerebbero un elemento di bellezza che, tutto sommato, è elemento complementare all’ascolto.
Luca Chierici
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