La danza israeliana è/ha una forza che scuote la scena. È danza-danza, convinta, decisa, robusta. Un motivo di fierezza per Israele. Tanti i nomi: Ohad Naharin, Sharon Fridman, Hofesh Shechter, Iris Erez. Le questioni sono però due, già in partenza. Non si tratta di “metadanza”, “post-danza”, al modo italo-europeo neo-contemporaneo d’oggi, ma di danza danzata. E l’Ambasciata di Israele in Italia sostiene i propri artisti, spesso programmati nei nostri festival e teatri, cosa non gradita ai nemici dell’attuale governo di quel paese e ai sostenitori della causa palestinese. Ne derivano: il favore del pubblico della danza per l’innegabile qualità degli artisti israeliani e insieme le manifestazioni di protesta davanti ai teatri dove si esibiscono, specie a Torino, dove ferve l’obiezione alla linea di Netanyahu sui territori occupati e dove non mancano anche gli agit-prop a favore di Israele.
L’arte è sempre politica, ovviamente. Ieri, oggi e domani.
Fatta questa premessa, Torino Danza e Roma Europa hanno ospitato Love Chapter 2 di Sharon Eyal (nata a Gerusalemme nel 1971, già direttrice artistica e coreografa associata della storica, moderna, Batsheva Dance Company, la maggiore del paese) e Gai Behar, party producer delle notti underground; un prodotto di energia indomabile, che sarà anche al Comunale di Modena Pavarotti nel marzo prossimo.
Sharon Eyal, con la sua L-E-V (cioè cuore) Dance Company formata nel 2013 insieme a Gai Behar e Ori Lichtik, musicista, sceglie spesso e volentieri il tema dell’amore per farne coreografie vulcaniche, cariche di sensualità.
L’amore mancato, fuori sincrono, oscuro, disperato, abitava i corpi infuocati di OCD Love, che ha nel titolo la sigla che sta per “disturbo ossessivo compulsivo”. Ispirato allo slam poem OCD di Neil Hilborn, in cui la patologia ansiogena è descritta ironicamente attraverso il racconto d’un innamoramento, questo pezzo del 2016, ripresentato accanto al seguente Love Chapter 2 (quello ora in tour, foto a lato, ndr) a Torino, brucia di pulsazioni techno e di luci che esaltano di lampi la pelle dei ballerini nei costumi neri e nel buio intriso di emozioni battenti.
Proposto al debutto dal Festival di Montpellier 2017, Love Chapter 2, poi, fa subito ripensare a una tecnica-non tecnica detta “gaga” (non significa nulla in particolare) che il caposcuola della danza israeliana Naharin applica al suo metodo di lavoro per “fare delle fragilità di ogni danzatore altrettanti punti di forza”.
Di certo i corpi dei cinque interpreti qui sono come molle sempre sotto sforzo. I due uomini e le tre donne si spostano, ognuno da solo, nello spazio scenico in virtù di questa spinta interna che crea sequenze di inusitati rimbalzi rigidi e di rara efficacia. L’intensità è costante, senza tregua.
La musica, come sempre, è il motore segreto di tensioni da trasmettere e condividere adesso in un ambiente essenziale, con scene e costumi color deserto. É Ori Lichtik a fornirla dal vivo, giostrandosi tra suoni elettronici e una dolce canzone andina, in dialogo con il movimento sincopato agito fino a esaurirsi sotto luci pienamente rivelatrici, questa volta. Anche ciò che sarebbe ostico, non bello, sa trasformarsi in mano alla coreografa e ai suoi complici in un flusso viscerale, a onde, attivatore di memorie fisico-psichiche istintivamente comuni a tutta l’umanità.
Elisa Guzzo Vaccarino
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