Il non numeroso pubblico italiano presente a Salisburgo per l’atteso Don Giovanni si lamentava, non a torto, di dover macinare migliaia di chilometri per seguire gli spettacoli di Romeo Castellucci, che al teatro d’opera ha lavorato infatti quasi sempre fuori dai confini nostrani. L’ultima sua ambiziosa produzione salisburghese in coppia con Theodor Currentzis, a suggello del centenario “lungo” 1920-2021, ne spiega il motivo. Con lo sterminato palcoscenico del Grossesfestspielhaus il regista cesenate sembra aver trovato il suo campo d’azione prediletto (e non solo perché i due sono nati quasi insieme: il teatro il 28 luglio 1960, lui una settimana dopo).
Il dominio degli spazi è assoluto, ancora più efficace di com’era stato nell’ormai sua storica Salome alla Felsenreitschule del 2018. Spazi, perché alla fame senza controllo e autoreplicante di Don Giovanni servono soprattutto quelli. Snaturati, cambiati, sconvolti, piegati al suo volere (quando non è piegato egli stesso dalla sua stessa malattia: quale? Quella di generare cloni di sé stesso per l’incapacità di cogliere il diverso da sé). Così la chiesa presentata nell’ouverture viene smontata pezzo a pezzo da un esercito di operai, che lasciano un gigantesco campo bianco in cui le emanazioni dei pensieri di Don Giovanni anziché entrare in scena, vi precipitano letteralmente. Di colpo, senza preavviso, piomba un’automobile con un tonfo sordo che toglie il fiato ai 2.170 spettatori del Grosses (finalmente senza distanziamento, con Green pass e mascherina Ffp2). Stessa sorte alla carrozzina che precede l’ingresso del Commendatore prima d’essere ucciso e ai due pianoforti (veri) che Don Giovanni tenterà di suonare ormai semidistrutti. Idem, ancora, per le palle da basket che dall’alto rotolano in ogni direzione, come le smanie del protagonista. Prima di spiegare chi sia il Don Giovanni psichico, insomma, Castellucci ne offre un profilo estetico attraverso un campionario di oggetti che interagiscono coi personaggi (struggente l’evocazione di Donna Anna che piange il padre contemplandone la stampella conficcata a terra). E questa via la si percorre dall’inizio alla fine attraverso due fasi molto nette: il primo atto è l’atto delle cose, il secondo quello delle persone.
La festa in maschera che chiude la prima parte del dramma giocoso vede la scena trasformata e quindi chiusa alla stregua di un’immensa discarica, che altro non è se non il caos irrisolto della vita impunita del nostro. Nel second’atto, invece, dominano le scene corali, che vedono coinvolte fino a 150 donne per volta (Castellucci le ha prese dalla società civile, di ogni età, anche diversamente abili), vestite e rivestite senza allusioni al #metoo. Non c’è un solo momento in cui lo spettacolo s’incagli nell’enigma, nel simbolismo vuoto. Ma al tempo stesso tutto rimane sospeso, inquieto, fluido e vibrante (contribuisce a questa sensazione un velo sottile mai alzato per quattro ore), nulla è mai sfacciatamente spiegato, come se Don Giovanni fosse un’energia pervasiva prima che un personaggio, forza capace di contaminare e inglobare a sé chi entra nel suo raggio d’azione (non per caso Leporello si presenta con gli stessi abiti e la stessa acconciatura del suo padrone-sosia). E siccome l’abito fa il monaco, anche i vestiti di Don Ottavio contribuiscono a sbalzarne un impietoso ritratto di uomo debole, che cerca la battaglia solo a parole, parole non sue peraltro, come se la sua vita fosse solo una citazione altrui. Ecco allora che il suo personaggio si presenta di volta in volta nei panni improbabili di un crociato in Terrasanta, di un cavaliere bianco o di un esploratore artico, con cani di razza finemente toelettati al guinzaglio, parossismo estetico dell’inadeguatezza, più che dell’impotenza sessuale. Don Giovanni invece il suo abito bianco non lo cambia mai: e quando lo perde muore, nudo in scena, ricoperto da una sostanza biancastra che lo pietrifica come una vittima di Pompei. Fin qui la parte visiva, di cui molto altro si dovrebbe dire – dalle stupende donne in nero simili a Erinni alla gigantesca carrozza che corre restando ferma, un’illusione come le vuote promesse di “Là ci darem la mano”, fino alla fotocopiatrice portata da Leporello al posto del solito catalogo – ma la forza dello spettacolo era soprattutto nella solida alleanza d’intenti tra Castellucci e Currentzis, complici nel confezionare un Don Giovanni a due tempi di marcia: vorticoso ed elettrico nelle arie, lentissimo nei recitativi, rallentati a tal punto da allungare la recita di una quarantina di minuti rispetto ai tempi di routine. Manipolazioni sì, in pieno stile Currentzis: dagli interventi “moderni” del fortepiano al coro in buca che canta il finale fugato “Questo è il fin di chi fa mal”, per non dire del colpo di teatro (quello sì, evitabile) dell’orchestra che viene sollevata ad altezza di palcoscenico durante l’aria “Finch’han dal vino”, cantata sotto l’effetto di luci impazzite, unica macchia estranea a una logica estetica ferrea, sempre seducente. Tra le voci, si prende applausi a scena aperta la Donn’Anna di Nadezhda Pavlova, ma non c’è sostanzialmente dislivello tra l’ottimo Mika Kares (Commendatore), Vito Priante (Leporello), Davide Luciano (Don Giovanni), Donna Elvira (Federica Lombardi) e Michael Spyres (Don Ottavio). Il 10 e il 20 agosto le ultime repliche.
Luca Baccolini
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