Festival di Villa Arconati – Chick Corea Akoustic Band

band leader e pianoforte Chick Corea
contrabbasso John Patitucci
batteria Dave Weckl
giardini di Villa Arconati

Melody Gardot

band leader voce, pianoforte, chitarra acustica Melody Gardot
chitarra acustica ed elettrica Mitchell Long
violoncello Artyom Manukyan
contrabbasso Sam Minaie 
batteria Charles Staab, 
giardini di Villa Arconati

 

Bollate – Degli otto appuntamenti del 30° Festival di Villa Arconati – tolta l’anteprima dedicata al vecchio swing all’italiana di Mario Panzeri e la manciata di pop su cui spiccava il veterano Graham Nash – agli amanti del jazz sono rimaste due sole occasioni per incontrare artisti di pregio. La prima il 18 luglio con il pianista statunitense Chick Corea, in trio acustico con John Patitucci al contrabbasso e Dave Weckl alla batteria. La seconda il 23 luglio con Melody Gardot – artista del New Jersey che sarebbe riduttivo classificare come semplice cantante jazz.
Di Armando Antonio Corea (questo il suo nome per esteso che rivela origini italiane, per la precisione calabresi) si è avuto meno di quanto ci si sarebbe aspettati da una data lombarda di un tour annunciato “tra leggenda e innovazione”. Se leggendario è Corea, con Patitucci e Weckl impeccabili comprimari, nel suo tocco pianistico carico di fioriture che continuano a renderlo inconfondibile, la sua fluente capacità improvvisativa si è ormai adagiata su un comodo manierismo che riporta al passato più che aprirsi al futuro. Ciò non toglie il piacere di riascoltare brani come In A Sentimental Mood  di Duke Ellington, oppure la ripresa di una sonata di Domenico Scarlatti, in arrangiamenti che riconfermano l’eccellente dote del pianista di Chelsea di sostituire accordi e ritmare riconfigurando le scritture originali.
Vera rivelazione del festival della villa “Piccola Versailles” (dai giardini disegnati sul modello francese) è stata Melody Gardot, giunta dopo un’esibizione a Umbria jazz. A 33 anni la sua estroversa capacità di linguaggio somma tratti sofisticati alla forza d’impatto di un talento naturale  forgiato da una grande volontà di ripresa emersa dopo il terribile incidente stradale che nel 2003 la costrinse a un calvario di molti mesi. Aveva 18 anni quando un suv la falciò in bicicletta rendendola ipersensibile a luce e suono. Da allora la musica è diventata – oltre che la sua professione – una via di fuga, un mezzo per guarire e migliorare. E i cinque milioni di dischi venduti nel mondo (a cominciare dal primo album Worrisome Heart) l’hanno spinta a divenire attivista nel sostenere la sua arte come terapia del dolore. Oggi nel suo modo di porsi al pubblico cantando al pianoforte, ma anche accompagnandosi con la chitarra che ha imparato a suonare durante la degenza, emerge un talento strumentale e vocale nel quale confluiscono – con il sostegno di un ensemble che è molto più di una semplice band – brandelli ben rimaneggiati di blues e di folk ed echi di vocalità che ricordano ora Billy Holiday ora Joni Mitchell, sublimate però in un inimitabile timbro struggente che Melody ricrea attraverso sempre nuove invenzioni e un grande senso dell’ironia. Una formazione a otto dove lei – voce, piano e chitarra – fa da band leader per sezione ritmica (Charles Staab batteria, Sam Minaie al basso), chitarra (acustica ed elettrica) di Mitchell Long, violoncello (lo straordinario armeno Artyom Manukyan) e trio d’archi. “Tutto scorre e tutto resta”, canta in inglese Melody giungendo ai bis dove ad accompagnarla restano solo le sei corde di Long e le quattro di Manukian. E il pubblico applaude estasiato.
Alessandro Traverso

 

 

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