ROMA
[interpreti] A. Watson, A. Baker, S. Harrison, T. Stensvold
[direttore] Antonio Pappano
[tromba] Hakan Hardenberger
Il titolo del nuovo pezzo di Luca Francesconi, Hard Pace, è un acrostico costruito con le sillabe iniziali di Hardenberger, strepitoso interprete alla tromba, Pappano, il direttore d’orchestra, e Cecilia: il pezzo è stato commissionato, infatti dall’Accademia Nazionale di San Cecilia, ed è dedicato ad Antonio Pappano che l’ha diretto, tromba solista d’eccezione lo svedese Hakan Hardenberger. Si tratta in fondo di un concerto per tromba e orchestra. Francesconi confessa di essersi ispirato al suono “rotto” della tromba di Miles Davis. Il riferimento è interessante, anche se poi nella musica, sul piano stilistico, l’allusione è assorbita da un’elaborazione assai diversa della scrittura. Ma c’è: ed è qualcosa che nella storia della musica europea si affaccia per la prima volta con Beethoven, vale a dire l’irruzione del suono non più come parametro educato, rielaborato, bensì come materia bruta, corpo sonoro spesso e invadente. Proprio nella Nona Sinfonia, che Pappano ha diretto subito dopo. è la battuta affidata ai soli timpani, nello Scherzo: un inciso tematico percussivo, quasi puro rumore. Verranno le ricerche timbriche dei romantici, degli impressionisti, la ricerca di Varèse, la musica elettronica. Ma quell’irruzione resta fulminante. E così il suono “sporco” dei grandi jazzisti, le voci rauche, urlate. è come se la musica, dopo Beethoven, rinunciasse alla distanza dall’emozione, dalla fisicità del vivere. Si compromettesse. Nemmeno i romantici lo capirono fino in fondo. Lo capì Mahler, e, ma solo in parte, Debussy. Forse bisogna aspettare Stockhausen. O addirittura Scelsi. Del resto non venne capito nemmeno l’inserimento delle voci nell’ultima sinfonia, che non è una confessione d’impotenza da parte della musica a significare messaggi, ma se mai il contrario, l’abbraccio di tutte le fonti del suono, strumenti e voci, a invocare l’abbraccio di tutta l’umanità. è messaggio politico, prima ancora che musicale. La Freude (gioia) di cui si canta è in realtà la Freiheit (libertà). È sempre compromettente toccare, invece che limitarsi a guardare, ascoltare, leggere. Si tocca un corpo, non un pensiero, o un sentimento. Ebbene, nella musica di Beethoven il pensiero, l’emozione si toccano quasi con la mano. Di questa irrequietezza del vivere tradotto in musica Francesconi, chi sa se consapevole d’infilarsi su una strada obbligata, ci ha dato una pagina mirabile, delicata. Splendidamente suonata da Hardenberger, magistralmente spiegata al pubblico, prima di dirigerla, dallo stesso Pappano. Il mondo in cui viviamo non ha orecchi per il canto degli uccelli, per lo scorrere di un ruscello, i suoni delle nostre città sono i tram, le automobili, il volo dei jet. Da questo magma indistinto Francesconi elabora una traccia, lo strazio di una solitudine incarnato nel suono della tromba. Beethoven fa nascere anche lui dal niente la sua sinfonia: una quinta vuota. Per gridare infine l’utopia di una fratellanza tradita, irrealizzata. La gioia urlata dai solisti e dal coro non è reale, infatti, è il desiderio, la speranza, l’utopia di una gioia, di una libertà ancora da realizzare. Come sempre, Beethoven rinvia a dopo l’ascolto. La musica è una promessa, che l’ascoltatore deve mettere in pratica. Successo trionfale per tutti, orchestra, coro e i bravi solisti (Anita Watson, Andrea Baker, Steven Harrison, Terje Stensvold, per Beethoven), trionfo rovinato dai soliti maleducati che si affrettano a guadagnare l’uscita appena intonato l’ultimo accordo.
Dino Villatico