Handel – Aci, Galatea e Polifemo

Handel - Aci, Galatea e Polifemo

TORINO
interpreti S. Mingardo, R. Rosique, A. Abete
direttore Antonio Florio
ensemble La Cappella della pietà de’ Turchini
regia Davide Livermore
teatro Carignano

Aci, Galatea e Polifemo è una serenata. Non propriamente un’opera, né un melodramma travestito da oratorio. I personaggi sono solo tre, quelli del titolo. E i “fatti” sono ridotti all’osso: il pastore Aci ama la ninfa Galatea; Polifemo per gelosia uccide Aci, il quale viene trasformato in fiume, ricongiungendosi così all’amata. Come nelle Metamorfosi di Ovidio. Spesso sono quegli stessi mitici fantasmi a raccontarli, compendiandoli negli svelti recitativi. Nondimeno la narrazione c’è, corre lineare. E una rappresentazione, anzi una messa-in-scena, è possibile: pur restando altra cosa rispetto a una vera e propria drammaturgia.
Partendo da queste premesse Davide Livermore centra uno dei suoi spettacoli più belli. Schivando il rischio di una semplicistica confusione di generi, ma nello stesso tempo riuscendo nella visualizzazione di affetti e situazioni attraverso una virtuosistico gioco scenico-gestuale. Di forte impatto teatrale.
E allora i personaggi sono replicati da tre mimi, mobili, avvolgenti, quasi danzanti (Cristina Banchetti, Luisa Baldinetti, Sax Nicosia). Il palcoscenico – per fortuna – si riempie, si anima, si affolla. Liberando d’altra parte le flebili, volatili, figurine dal carico di un’identità che già l’ornamentale libretto di Nicola Giuvo gli nega. Ma quelle controfigure a volte prendono la loro strada, quasi replicanti ribelli. Come quando il clone di Polifemo rivaleggia con Galatea e s’inginocchia a raccogliere la carezza del suo “originale”. Liberando tutte le ambiguità sentimentali che l’aria barocca, con la sua spirale contrappuntistica, custodisce e insinua.
La riflessione sui generi e sulle forme ha la meglio sulle ragioni dell’attualizzazione, che pure non manca nei costumi estrosi e senza tempo, e nelle scene da interno-rudere settecentesco. Succede anche quando il dinamismo dell’aria handeliana, rotto dalle ripetizioni motiviche, si “vede” nella iterazione ossessiva di un gesto, di una spinta, di uno schiaffo. Nei modi di un  moderno videoclip. O quando nel terzetto e nel duetto che interrompono le evoluzioni solistiche, il quadro scenico si assesta in sequenze cinematograficamente “montate”. Nel duetto finale, Aci e Galatea cantano le gioie del loro amore, ma i loro replicanti sono già nudi alla prova dell’ultimo amplesso, mentre Polifemo, già in conflitto col suo alter ego, punta sugli amanti la pistola. Un attimo sospeso, prolungato, che diventa eterno.
Ha fatto bene il Regio di Torino a collocare una cameristica serenata negli spazi raccolti del Teatro Carignano. Ora riaperto: bellissimo. Così anche la presenza della Cappella della pietà de’ Turchini può essere valorizzata. Quella di invitare i nostri migliori complessi barocchi in spazi piccoli e produzioni “off” è una strada da percorrere. E non importa se questa volta Antonio Florio dirige con bel piglio ma senza estro, se il continuo non varia con fantasia come si vorrebbe, se non tutti gli strumenti sono impeccabili per virtuosismo e intonazione. Questo, come impianto, resta l’unico Händel possibile. Merito anche della brava Sara Mingardo, timbro scuro e controllo perfetto del fiato, Galatea intensa e mascolina, e della pur corretta Ruth Rosique impegnata nella inerpicante vocalità sopranile (per castrato) di Aci. Tra donna-grave e uomo-acuto si mette di mezzo un basso, l’aspro e tonitruante gigante di Antonio Abete.

Andrea Estero


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306 Novembre 2024
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