SALISBURGO – Scorrendo la locandina dell’Ariodante che ha inaugurato il festival di Pentecoste (e che torna in scena ad agosto nella maggiore rassegna estiva) balza all’occhio l’inversione dei tipi vocali. Alla prima (1735) l’eroe del titolo era il castrato Carestini, e il suo rivale il soprano Maria Caterina Negri. Qui Ariodante è – come nella tradizione recente – una voce femminile, Cecilia Bartoli, mentre Polinesso è affidato a un controtenore. L’inversione vocale può aver avuto ragioni tutte ascrivibili all’equilibrio canoro: con un mezzosoprano a interpretare il principe pretendente al trono, la legge del contrasto vuole che il perfido Duca d’Albany abbia il colore diverso, ambiguo, proteiforme controtenorile. Ma la Bartoli (direttrice artistica riconfermata) e il regista Christof Loy sono andati oltre: vi hanno l’occasione per costruire uno spettacolo radicalmente “gender”. Scambio di generi, e non solo di voci, dunque. E d’altra parte il barocco musicale è – vocalmente parlando – molto meno bacchettone dell’Ottocento, popolato solo da maschi e femmine. Così Cecilia Bartoli entra in scena da guerriero barbuto e promesso sposo; ricompare uomo (ancora “peloso”) ma in abiti femminili, dopo il tentato suicidio per il presunto tradimento di Ginevra; riconquista trono e onore divenendo donna: se stessa, l’autentica Cecilia.
Non si agitino le sentinelle in piedi. Non c’è un family day da convocare. Il progetto visivo sfrutta una risorsa del teatro barocco solo per visualizzare la crescita interiore e “culturale” della nuova coppia Ariodante-Ginevra contro le vecchie, cruente, trame dinastiche. Ritrovare se stessi, più che conquistare una corona: e infatti la questione politica, rispetto ad altri Ariodante, è visivamente ridimensionata. Loy dichiara d’ispirarsi all’Orlando di Virgina Woolf (di cui viene letto un passaggio durante la recita) e alla sua affermazione di un amore universale, al di là dei generi. Ma quello che conta, e che teatralmente funziona, è la rappresentazione della metamorfosi: l’Ariodante e la Ginevra della fine non sono uguali a quelli dell’inizio. Il lieto fine non è il ripristino di una situazione precedente. Per questo è sembrato superfluo, nell’ultima aria, abbinare lo stellare virtuosismo a qualche tirata di sigaro in un gioco vocale e scenico ardito ma non richiesto (onore peraltro all’irreale sprezzatura dalla Bartoli): dov’è l’evoluzione, se nel primo atto avevamo assistito allo stesso calembour – ben altrimenti ironico – con bicchiere di champagne e relativa ubriacatura?
È l’unica, ma fastidiosa, ridondanza per uno spettacolo condotto con cura recitativa estrema in un interno settecentesco aperto sulla rigogliosa natura pittorica scozzese e raffreddato da abiti modaioli e luci forse sempre troppo accese. La Bartoli non si risparmia né nelle arie cinetiche, che affronta con padronanza, leggerezza e umorismo, né in quelle patetiche, risolte con legato immacolato e timbro sbiancato. E senza peso è pure le direzione di Gianluca Capuano, non solo nel prodigioso accompagnamento di “Scherza infida in grembo al drudo”: una carezza di colori sui dolori di Ariodante/Bartoli, ma ovunque miracolosa nel tradurre gli affilati, penetranti, umori strumentali in trasparente leggerezza. Senza peraltro rinunciare al veloce, incalzante, montaggio teatrale e alla pronuncia ritmica scolpita offerta dai nuovi Musiciens du Prince/Monaco, soprattutto nei balletti che concludono ciascuno dei tre atti. Nella compagnia di canto si ricordano per compiutezza vocale e accenti vividi la Ginevra di Kathryn Lewek e il Polinesso di Christophe Dumaux, mentre il Re di Nathan Berg ha un vocione fuori stile e sopra le righe.
Andrea Estero
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