ROMA
direttore Antonio Pappano
regia Keith Warner
coro e orchestra di Santa Cecilia
auditorium Parco della musica
Keith Warner, il regista di questa bellissima Giovanna d’Arco al rogo, ha chiesto allo scenografo Es Devlin (che ha disegnato pure i costumi, assai austeri, ma talora, come nella scena degli animali, anche grotteschi) d’innalzare un gigantesco parallelepipedo bianco di tela trasparente proprio davanti al palco dell’orchestra e agli scranni del coro, dentro vi si slancia una grande sedia bianca, sui listoni laterali posteriori si aprono due botole dalle quali entrano ed escono alcuni personaggi, che, come tutti gli altri, vestono gli abiti di oggi. E se Giovanna non vestiva così, come ha osservato, uno del pubblico, nemmeno parlava la lingua di Claudel. Le luci, ora bianche, quasi accecanti, ora più tenui, o perfino tenebrose, di Ben Ormerod e le proiezioni video di Lorna Heavy agitano la scena e la drammatizzano: impressionanti le fiamme finali che divorano tutto. Attori e cantanti si muovono con eleganza misurata, stilizzatissima, a fugare ogni tentazione d’inopportuno realismo. Tra la grande scatola bianca e l’orchestra c’è il podio del direttore, Antonio Pappano, in serata di grazia. Bella inoltre l’idea, ormai un’abitudine, d’inaugurare la stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con una grande pagina del novecento storico, quest’anno appunto la Jeanne d’Arc au bûcher (così suona il titolo in francese) di Paul Claudel e Arthur Honegger. Come se questo poi non bastasse, quasi tutti i concerti, nel corso della stagione, offrono all’ascolto una partitura del novecento, quando non addirittura una di oggi. La storia di Giovanna d’Arco ha infiammato molti drammaturghi, da Shakespeare, che ne fa però una puttana della soldataglia, a Schiller che ne esalta invece la purezza, a Shaw, che ne ammira il candore, e nel cinema Dreyer, Bresson girano due capolavori, Rossellini (che si avvale di una grandissima Ingrid Bergman), Besson, comunque due film significativi. Ma Paul Claudel e Arthur Honegger concentrano la storia della santa guerriera sugli ultimi momenti: la sua vita è guardata all’indietro dalle fiamme del rogo che lei non sa perché la bruci, ha paura, ma non rinnega la sua missione. Il testo è molto alla Claudel, un testo prolisso e vuoto, con qualche momento però di profonda commozione. Ma è tuttavia la musica a costruire l’ossatura drammaturgica dell’oratorio drammatico: musica ironica, grottesca, delicata, struggente, aggressiva, dolcissima. Straordinaria, duttilissima interprete l’attrice Romane Bohringer, che regge il confronto con Ingrid Bergman. Ma tutti gli interpreti, attori e cantanti, sono bravissimi, in particolare l’eccezionale Emanuel Durand nelle parti dei due Recitanti e l’avvincente Tchéky Karyo nel ruolo di San Domenico. L’Orchestra e il Coro ceciliani, intonatissimi, suonano e cantano con suono caldo, spesso soave, e sempre travolgente, ma anche talora lancinante, duro, aspro, ferrigno, quando la situazione lo richiede. Antonio Pappano sa trarre cioè dalla partitura una varietà incredibile di atteggiamenti teatrali ed espressivi, ora è lirico, ora drammatico, e sempre in perfetta sintonia con la recitazione degli attori e il canto del coro e dei solisti: una musica che è già essa stessa teatro. E – miracolo! – il pubblico dell’Accademia, per lo più di gusto conservatore, nostalgico, che detesta come un malanno la musica moderna, come se ai suoi tempi Beethoven non fosse stato moderno, un pubblico inoltre maleducato, che si alza e prende la fuga all’ultimo accordo, prima ancora che si accendano in sala le luci, questa volta non solo tributa un vero e proprio trionfo a una partitura non proprio facile del XX secolo, ma per dimostrare il proprio entusiasmo alla musica, a Pappano, a Warner e a tutti gli interperti, contro le sue abitudini, resta inchiodato alla poltrona e perfino aspetta che si accendano le luci per uscire finalmente dalla sala. Ecco un segno tangibile di come un direttore possa farsi amare dal suo pubblico. Che bello!
Dino Villatico