Coreograficamente parlando, lo Schiaccianoci di George Balanchine sfida qualunque altra versione di questo caposaldo del grande repertorio. Vale a dire che va oltre a quella cosiddetta “psicologica” di Nureyev, con i fantasmi degli adulti opprimenti, che l’Opéra de Paris e la Scala hanno in repertorio da tempo; a quella del Royal Ballet elegante e composta; a quelle di tradizione del Marinsky e del Bolshoi, per restare al classico.
Niente a che vedere con lo Schiaccianoci modernizzato di Nacho Duato, visto alla Scala due anni fa, né con quello autobiografico très français di Maurice Béjart, e non certo con quella di Giuliano Peparini (ex Roland Petit e molti show tv) genere tuttifrutti all’Opera di Roma.
La Scala è l’unico teatro in Italia e il secondo in Europa a mettere in scena lo Schiaccianoci balanchiniano, approdato una decina di anni addietro solo a Copenhagen.
Balanchine eccelle nel senso che i passi e le dinamiche con lui sono necessari, giusti, armoniosi: se la musica vortica i fiocchi di neve vorticano. Levità e velocità, virtuosismo senza compiacimenti: “danzare per danzare”, visto che danzare pur bisogna, qui non esiste. Che meraviglia.
Salti e giri sono il “minimo sindacale” per dei bravi ballerini, e quelli della Scala, che indossano con gioia questo Nutcracker del 1954 nato per il New York City Ballet, adesso lo sono veramente. Prova ne sia che questo Schiaccianoci senza star ospiti funziona benissimo e piace moltissimo.
Balanchine offre molto, coreograficamente appunto, e chiede molto: ogni dettaglio di inventiva, specie per la bravura femminile – ad esempio i tour alternando passé davanti e dietro per il solo della Goccia di rugiada, la scattante Gaia Andreanò il 30 dicembre – e ogni spunto di musicalità è perfettamente leggibile, se eseguito come alla Scala con la pulizia del caso, per il piacere unico di accordare occhio e orecchio.
Il primo atto è per i bambini, che non fanno tenerezza in quanto tali, ma brillano per essere già dei ballerini, semplicemente “piccoli”, frutto dell’ottima scuola della Scala.
In effetti la nostalgia che ha guidato la mano del coreografo nel disegnare il racconto, tanto connesso alla sua infanzia e ai Natali della sua Russia lontana, mostra la festa come un momento di apprendistato dei modi “da grandi” che i ragazzini e le ragazzine devono acquisire, comportandosi da cadetti e debuttanti in formato ridotto e agendo per imitazione degli adulti che fanno da modello.
Fritz, siccome è il più piccolo, si sente fuori gioco e per questo inventa capricci e monellerie, e fa dispetto alla sorella; logico, plausibile, senza bisogno di mobilitare psichiatri. Lo zio illusionista Drosselmeier appare in cima all’orologio nei sogni di Clara, ma non è veramente un personaggio da incubo. Il gufo che batte le ore e le ali sul pendolo si trasforma nella sua ombra che sbatte il mantello. Basta così. E i topi non sono spaventosi e i soldatini sono giocattoli.
Lode a Balanchine, quindi, per tanti buoni motivi e anche perché evita la usuale pantomima reumatica- e pseudocomica- dei nonni, per lui una coppia con i capelli bianchi, amata e rispettata, perfettamente in grado di prender parte ai balli di società.
La musica fluisce morbida e vivace sotto la bacchetta di Michail Jurowski, mentre la vicenda procede con l’albero che si fa gigante – cosa a cui George Balanchine teneva enormememnte, tanto da far spendere ai produttori 80000 dollari per realizzarlo, ripagati però da un successo di cassetta duraturo e immancabile – e con i fiocchi di neve che cadono e cadono deliziosamente, indispensabili perché sia Natale, quando i due giovani protagonisti, all’ultima recita del 2018 Chiara Ferraioli e Edoardo Russo, si avviano verso il Regno degli Zuccheri.
Il bosco disegnato da Margherita Palli, che firma il nuovo allestimento milanese, è la scena più bella, più fiabesca di tutte. Il roseo negozio di dolci del secondo atto è meno efficace. Oggetti come il lettino dello Schiaccianoci e la corona del Re Topo sono in formato troppo piccolo per vederli e intenderli da lontano, mentre il trono dove siedono Clara e il suo cavaliere nel secondo tempo è troppo grande. Ma in questo balletto conta soprattutto la coreografia luminosa, e come viene eseguita con cast appropriati. La storia, le scene e i costumi sono di servizio alla danza.
Non di rado si vede il contrario.
Nel secondo atto, con i ballerini della casa, il gusto balanchiniano per la danza concertante si manifesta in tutto il suo fulgore. La Fata Confetto, Martina Arduino, è delicata e precisa, con stile, accanto a Nicola Del Freo, il suo Cavaliere, vigoroso, puntuale, eccellente partner. Il valzer dei fiori, tutto femminile, potrebbe essere staccato dal contesto, come uno dei tipici brani cosiddetti “astratti” del maestro russo-americano.
La danza delle ragazze marzapane, color pistacchio, con la solista Caterina Bianchi, è spumeggiante (niente trio young dei Mirliton, che qui i bimbi sono dappertutto) e Mamma Zenzero, con i figlioletti nella donna enorme, Samuele Berbenni en travesti, è una riuscita assicurata.
Se nel primo atto Mattia Sempreboni è un soldatino-pupazzo mirabolante, nel secondo Andrea Crescenzi-bastoncino di zucchero non è da meno con i suoi salti nel cerchio, e Maria Celeste Losa seduce con le bellissime linee molto chic nella danza araba. Nessun manierismo nelle danze etniche, nessuna caduta di gusto, nessun effettismo: questo Schiaccianoci merita di vivere ben oltre le recite di gennaio 2019.
Elisa G. Vaccarino
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