MILANO – Alla critica italiana non piaceva la prima versione di Madama Butterfly. Fedele D’Amico, che ha dedicato all’argomento diversi scritti, non consentiva di riconoscere al “compositore più apolitico e immoralista del mondo” una qualche sensibilità per i contesti storici e sociali, su cui al massimo poteva “singhiozzarci sopra a termini della sua piccolo-borghese ideologia”; salvo poi ricredersi ascoltandola dal vivo per la prima volta (a Venezia, nel 1982), nella stessa edizione di Jiulian Smith che viene presentata oggi alla Scala. La più recente ricerca pucciniana è invece affascinata da ciò che Puccini portò sul palcoscenico milanese nel 1904, ricevendo fischi e disapprovazioni presumibilmente organizzate dall’editore nemico, Sonzogno, che lo portarono a ritornare sui suoi passi. Puccini, rispetto alle sue scelte, non era ostinato e incrollabile come Verdi. Ma al di là del risarcimento scaligero, la “prima” Butterfly intriga davvero. E il merito di Riccardo Chailly sta nell’averci permesso di rendercene conto.
La versione
In cosa è diversa da quella “di tradizione”, frutto di diversi tagli e ripensamenti? Grosso modo: è diverso il celeberrimo ingresso di Butterfly, il suo Leitmotiv non è profilato come sarà nella versione finale; e il monologo dell’ultima scena, quella del suicidio, è qui più lungo e lugubre. E ancora: nella Butterfly “di” Chailly il coro a bocca chiusa non ha interrotto la rappresentazione, concludendo il secondo atto (un compromesso al ribasso di Puccini per rendere più digeribile la fruizione al pubblico d’epoca), ma ha funzionato come all’origine da ponte verso la scena successiva dell’alba, agganciandosi direttamente al seguito con uno splendido interludio orchestrale.
Ma le vere differenze sono teatrali, e riguardano il carattere dei personaggi: il Pinkerton di Bryan Hymel dovrebbe essere più cinico, ipocrita, “yankee”, americano alla Donald Trump per capirci, e questo emerge nelle scene caratteristiche del primo atto poi espunte in cui con perfida e volgare tracotanza irride gli usi e costumi giapponesi. E infatti questo Pinkerton non canta l'”Addio fiorito asil”, aria-zeppa data in pasto ai melomani successivamente. A specchio, la Cio-cio-san di Maria José Siri non è la bambolina inconsapevole altre volte ascoltata. Lo dicono diverse battute presenti nel libretto, come quando allude a un precedente rifiuto alle offerte di Pinkerton. Da esserino indifeso diventa eroina vittima delle sue stesse illusioni. E questo non fa che accentuare lo spessore nuovo, moderno, di questo straordinario personaggio, nelle cui attese deliranti Puccini trova per la prima volta il varco per scritture orchestrali e drammaturgie d’impronta simbolista, con punte di tensione che anticipano i vaneggiamenti dell’Erwartung schoenberghiana.
La regia
La domanda è: in scena e in buca l’allestimento della Scala valorizza questi aspetti? Solo in parte. La regia di Alvis Hermanis sceglie la strada della stilizzazione, ispirandosi al teatro Kabuki: una decisione che pregiudica soluzioni teatralmente più drastiche e “forti”. Ma è una scelta. Funziona nella descrizione delle ridicole e impettite giapponeserie, servite per il divertimento e lo scherno del tenente americano, che ricompensa parenti e burocrati con dollari sonanti. Ma allora poi, questa scelta, perché non spingerla fino in fondo? Butterfly è una farfalla, filtra i suoi sentimenti attraverso un codice simbolico astratto. Quando Sharpless ipotizza “se non dovesse ritornar più mai”, la farfalla si accascia, cade. Perde le ali. Ma dopo, in tutti i successivi deliri si normalizza, si ricompone a mani giunte come una suorina. Senza dire che Hermanis neutralizza il modernissimo monodramma scritto da Puccini riempendo il palcoscenico – proprio nella lunghissima e avveneristica scena muta e oltre – di anime-figuranti in ingombranti kimono, coreograficamente ridondanti. Oltre che di troppe giapponeserie e cartoline illustrate. Negando a Cio-cio-san la sua disperata solitudine perfino alla fine, durante uno dei sudici più visionari della storia dell’opera.
La direzione e i cantanti
Riccardo Chailly ha investito tutta la sua autorevolezza nella scelta di questa Ur-Butterfly. Bella la sua direzione antiretorica, puntata sulle sottrazioni più che sulla ricerca dell’enfasi a ogni passo, che avrebbe interrotto la miracolosa continuità, flessibile e sensibile, con cui l’orchestra sostiene la vicenda. Affievolimenti e improvvise lentezze sono, per paradosso, il suo punto di forza. Piace nella misura in cui invece di modellare il suono d’orchestra inseguendo le voci nei canonici raddoppi strumentali, mette a fuoco il tessuto sonoro sottastante, solitamente dimenticato: e ciò non accade sempre. La sua Butterfly è dunque più bella “orizzontalmente”, nel racconto stemperato in prosa, che “in verticale”, nella ricerca di nuovi e supefatti equilibri sonori. Una soluzione, questa, in sintonia con un parco vocale eccellente ma non eccelso, senza mattatori. Maria José Siri non fa una Butterfly “di voce”, ma è una gran musicista e un’interprete di piena compenetrazione. E Bryan Hymel è un Pinkerton chiaro, di bel timbro, a cui mancano le note piene e smaltate della affabulazione tenorile.
Andrea Estero