pianoforte Daniel Barenboimdirettore Claudio Abbadoorchestra Filarmonica della Scalaorchestra Mozart Bolognateatro alla Scala
MILANO
MILANO – Non poteva che essere accolto con una “standing ovation” il ritorno di Claudio Abbado sul podio della Scala. Tutti in piedi ad applaudire il suo ingresso al Piermarini dopo 26 anni di assenza. E tutti a spellarsi le mani alla fine in venti minuti di chiamate e boati che suggellano una Sesta di Mahler da incorniciare nella galleria degli eventi scaligeri storici. Non poteva essere diversamente, se non per l’inedita “fusione” tra Filarmonica di casa e Orchestra Mozart: perfettamente riuscita a giudicare dalla rispondenza tra intenzioni ed esiti. Ne esce un Mahler irto nel suono, bruciante negli involi melodici, ricercato nella drammaturgia dei timbri. Sembra che la circostanza esecutiva abbia portato lo stesso direttore ad affrontare la partitura con uno slancio che mitiga le introspezioni e libera le energie, fino alla sorda “catastrofe” rappresentata dall’accordo in fortissimo finale, inesorabile ma “oggettivo”. In purissimo stile Abbado. La leggenda peraltro vuole che il direttore milanese si sia lasciato convincere per una occasione speciale: i settant’anni di Barenboim, intervenuto come pianista. Ma nel Concerto n. 1 di Chopin che apriva il programma la simbiosi tra i due latitava. Un po’ perché il titolo non offre nessuna occasione di dialogo. Ma anche per l’antitetico modo di far musica dei due ex compagni di corso all’Accademia Chigiana. Così mentre Daniel puntava a “poeticizzare” ogni nota di quella scrittura tutta belcanto e coloratura, dalla resa non proprio adamantina, Claudio cercava le poche occasioni per imprimere perentorie svolte espressive.