interpreti M.S.Doss, N.Ceriani, S.Nayda, J.Howarth, B.Diaz, M.Hollop, J.Milner, E.Shiltondirettore Asher Fischregia Damiano Michielettoteatro Massimo
PALERMO
PALERMO – Lode al Massimo di Palermo per aver messo in scena una delle opere più significative del compositore ceco, mai rappresentata prima in Italia. A dire il vero, rappresentata pochissimo dappertutto. Così come sempre scarsa e di nicchia è stata fino a pochi anni fa l’attenzione per tutta la sua musica: fu, infatti, nel 1990 per il centenario della nascita, e soprattutto nel 2009 per il cinquantenario della morte che si è registrato un risveglio d’interesse per la sua produzione ricca di composizioni sinfoniche, concertistiche, per balletto, da camera e teatrali. Suo ultimo titolo, proprio questa Greek Passion destinata ad essere rappresentata nel 1957 al Covent Garden, dove invece, nonostante il sostegno del direttore musicale e suo compatriota Rafael Kubelík, non andò in scena e per motivi politici – i tesi rapporti diplomatici fra Grecia e Gran Bretagna per l’inasprirsi del conflitto cipriota – e per il subdolo atteggiamento del compositore e membro del cda Sir Arthur Bliss. Martinu sottopose l’opera a una revisione musicale e drammatica che vide la luce a Zurigo nel ‘61, due anni dopo la sua morte. La versione originaria – la stessa di Palermo – andò in scena a Bregenz solo nel ’99 (l’anno dopo, finalmente, il debutto al Covent Garden) grazie al recupero dovuto al musicologo ceco Ales Brezina, direttore del Bohuslav Martinu Institut di Praga.
Il libretto, in inglese per via della progettata destinazione londinese, fu tratto dal musicista stesso – sfoltendolo di molti eventi e personaggi – dal romanzo di Nikos Kazantzakis Cristo di nuovo in croce, pubblicato in America col titolo di The Greek Passion. Ambientato negli anni Venti, all’epoca del conflitto greco-turco, narra le vicende di una piccola comunità greca alle prese con una realtà che ne mette a dura prova la fortezza morale. È Pasqua e, secondo tradizione, gli abitanti – o meglio, i notabili – del villaggio di Lykovrisi scelgono tra i compaesani gli attori destinati a interpretare i diversi personaggi della Passione nelle funzioni della settimana santa dell’anno successivo. Ecco, però, che la simulazione rituale si trasforma poco a poco in realtà e tutti si trovano a vivere, e affrontare, le stesse situazioni dei personaggi che devono incarnare. Gesù sarà l’ingenuo e mansueto pastore Manolios che come il Cristo allontanerà le tentazioni della carne fuggendo sia dalla viziosa vedova Keterina, scelta per il ruolo di Maddalena, sia dalla promessa sposa Lenio, pronta a consolarsi col pastore Nikolio. E come il Cristo morrà per mano di Giuda (il conciatore Penait, suo amico, inizialmente spaventato dal ruolo e restio ad accettarlo), condannato dalla sua comunità per la pietà predicata nei confronti dei fratelli colpiti dalla sventura. Questi ultimi sono i profughi di un paese vicino, messo a ferro e fuoco dai turchi, alla disperata ricerca di asilo e solidarietà. Ed ecco che a contatto con una realtà che esige di rendere concreta la solidarietà umana, l’egoismo immediatamente affiora, prende il sopravvento e l’afflato ecumenico pasquale – proprio come Schengen – viene sospeso, addirittura con pretesti indegni come paventare il contagio attribuendo al colera la morte di una donna giunta fin lì stremata dai tormenti.
All’articolazione drammatica del libretto fa riscontro l’intensità di un discorso musicale di immediata presa sullo spettatore: una musica semplice solo all’apparenza, in realtà di un virtuosismo di somma eleganza realizzato con largo uso di strumenti non convenzionali: un affascinante crossover di generi e stili, da Puccini a Strauss, dal folklore nazionale al neoclassicismo di Stravinski, dall’impressionismo francese al jazz, dal barocco allo swing afroamericano. Una musica che al posto di arie chiuse offre ariosi e declamati, intermezzi strumentali, evocazioni mistiche sollecitate dalla liturgia ortodossa. Una musica servita come meglio non si poteva desiderare dall’orchestra e dal coro del Massimo (una menzione particolare alle voci bianche) guidati dall’israeliano Asher Fisch con un piglio drammatico nel quale risaltavano in modo ancora più inquietante i momenti di lirico abbandono. Ottimo anche il cast dove primeggiavano il Manolios di Sergey Nayda, i due sacerdoti – Kostandis quello degli esuli, e Grigoris quello del villaggio – di Nicolò Ceriani e Mark S.Doss, il ricco Archon di Markus Hollop, la travagliata Katerina di Judith Howarth, e la passionale Lenio di Beatriz Diaz.
Ma l’apparato musicale da solo non sarebbe bastato a fare dello spettacolo uno dei più belli di tutta la stagione italiana senza la regia di Damiano Michieletto, che ha reso la vicenda di inquietante attualità, arrivando addirittura a costringere i profughi in una sorta di Centro di Prima Accoglienza (gli ahimè noti CPA): incredibile coincidenza con l’odierna realtà, visto che lo spettacolo era stato pensato e progettato già da un anno. Oltre alla recitazione perfetta di tutti i numerosi personaggi (bambini compresi) e figuranti, ognuno dei quali sembra raccontare una sua storia personale, geniale è la sostituzione dei numerosi ambienti – chiesa, osteria, case varie, piazza ecc. – in un’unica struttura rotante. Una sorta di casa in costruzione – allegoria di un destino comune da edificare – tuttora a livello di rustico con le impalcature in cemento non ancora liberate dalle assi di contenzione, ma con tre piani e molti ambienti essenzialmente arredati, dove hanno luogo le azioni del dramma: altro capolavoro di Paolo Fantin, le cui scene mai si limitano a creare un alveo ideale per la recitazione, bensì “recitano” anche loro, ruotando con la musica ed entrando così direttamente nei momenti più drammatici, assumendo forme sempre nuove aiutate dalle luci di Alessandro Carletti.
Giancarlo Cerisola