CREMONA
interpreti T. Fabbricini, B. Taddiadirettore Matteo Beltramiregia Andrea Cigniteatro Ponchiellicircuito Lirico lombardo
Furono scritte tutte e due per New York. E in questa circostanza, nonostante i quasi trent’anni di distanza, si trova la loro convergenza.
Rispondere alle richiesta di una città, di un pubblico. Cercare la sintonia con una cultura. Per questo intriga l’accostamento di Gianni Schicchi (1918) con La Medium (1946, qui nella versione in italiano approvata dal compositore) proposto dal Ponchielli di Cremona e poi convolato nei teatri del Circuito lirico lombardo. Ma per i motivi opposti a quelli di chi si attarda a radicare la produzione di Menotti nella tradizione pucciniana e “verista” (sic!). Prendendo due granchi: su Menotti e su Puccini. Al contrario se Puccini scopre l’America da compositore europeo, Menotti impara da giovanissimo a fare l’americano. La sua drammaturgia parla cioè la lingua del teatro e del cinema d’oltreoceano anni Cinquanta, da Arthur Miller e Eugene O’Neill a Elia Kazan. E si disinteressa del problema linguistico-evolutivo, così come era vissuto in Europa, e “subito” dai Puccini e dai veristi.
La giovane squadra di interpreti intercetta al meglio queste istanze. Anche se la regia di Andrea Cigni, pur assecondando il taglio cinematografico con attenta idiosincrasia per ogni retorica melodrammatica (aiutata in questo dalla vocazione attoriale di Tiziana Fabbricini e dalla presenza di Nicola Russo, guest star nella parte muta di Toby), manca delle necessarie tensioni sottopelle che poi esplodono violente, come in Tennessee Williams. Passando dal gioco divertito (che qui non c’è) della truffa di famiglia alla tragedia finale del colpo di pistola.
Anche Matteo Beltrami, vera e propria rivelazione di questo dittico, controlla perfettamente il registro tutto “teatrale” di dialoghi e “songs” imbastiti su ipnotici disegni orchestrali. Col rischio di sacrificare perfino qualche necessaria punta di tensione. Laddove dirige uno Gianni Schicchi che emoziona per la riuscita reinvenzione arcaicizzante del suono. Sui leggìi c’è una versione da camera realizzata da Panizza e approvata da Puccini. E il suono si fa nitido e adamantino, a volte secco, aggressivo. Raveliano o stravinskijano. Perfetto anche nei misurati abbandoni lirici. E d’altra parte anche lo spettacolo di Cigni, ambientato in spazi cameristici grazie agli ingombranti marmi fiorentini che occupano la scena, tenta la rievocazione (neo)settecentesca, con una recitazione ostentatamente marionettistica (e con risvolti “cattivi”). Autenticamente modernista. Mentre tra la Lauretta vocalmente sopra le righe di Marta Vandoni Iorio e lo Schicchi mattatore ma troppo parlato di Bruno Taddia, si segnala il buon Rinuccio di Camillo Facchino.
Andrea Estero