INTERPRETI: G. Magee, D. Galou, P. Kolgatin, K. Dragojevic, P. Ens, S. Puértolas ed altri DIRETTORE: Christophe Rousset
REGIA: Claus Guth
TEATRO: an der Wien
VIENNA
VIENNA – Quello di Ulisse a Vienna è un doppio ritorno in patria. Primo perché la sua Nationalbibliothek conserva l’unico apografo della partitura, per quanto lacunoso e sommario; secondo perché proprio il Theater an der Wien ospitò nel 1971 la leggendaria produzione di Ponnelle-Harnoncourt dalla quale si data lo stabile rientro in repertorio del venerando capolavoro (1641). Molta acqua è passata sotto i ponti della Wien, e nello stesso teatro rinnovato ha preso avvio nel dicembre 2011 la nuova trilogia monteverdiana per la regia di Claus Guth, in rincorsa con quella scaligera curata da Bob Wilson e Rinaldo Alessandrini. L’Orfeo viennese dell’anno scorso era stato buato senza pietà; invece l’Ulisse ha riscosso grandi applausi a parte qualche defezione nell’intervallo. Mistero buffo, poiché – al pari del calligrafico Wilson – anche Guth ha una cifra drammaturgica inconfondibile e coerente. Attualizzazione, certo; e poi scavo nelle fosse più settiche della psiche, trame prosciugate, arredo scenico di voluta sgradevolezza ricuperato dai magazzini della Rinascente anni sessanta.
Stavolta il Konzept di partenza si svolge nell’unità aristotelica di tempo: un giro di sole. Reduce da vent’anni di guerre somiglianti ad un qualche Vietnam o Iraq contemporaneo, Ulisse è tormentato dai fantasmi che lo assediano nel suo salotto tipo middle class americana, dove non manca neppure l’angolo bar: divinità olimpiche lugubremente incappucciate in camici bianchi, un cadavere gassato, una jeep militare e via allucinando. Compresa la strage dei Proci, qui trasformata in amok pistolero. Anche il parassita Iro, in moto perpetuo dal frigo al WC, si suicida con la pistola; si salva solo l’arco, attrezzo simbolico che una regia più corriva avrebbe certo mutato in kalashnikov. Di aiutare Ulisse nell’elaborazione del lutto s’incarica una Minerva gradatamente umanizzata, da proiezione dell’Io disturbato a benigna terapeuta di coppia. Il suo intervento si rivela decisivo per rimuovere Penelope dalla negazione dell’avvenuto ritorno, visto che lei nel ruolo di fedele moglie dell’Assente aveva trovato compenso al disagio. A sera il reduce brucia la sua tuta mimetica e i coniugi si adagiano sul divano a riannodare la conoscenza, più delle anime che delle carni.
Dopo un lento avvio nella prima ora e mezza, la seconda parte acquistava ritmo e slancio pur restando nella dimensione del dramma da camera voluto da Guth. Il tutto grazie alla miracolosa acustica del nuovo an der Wien, dove è possibile un rapporto di forze analogo a quello dei teatri veneziani seicenteschi: 19 musicisti in buca contro 15 in scena. Christophe Rousset guidava i suoi Talens Lyriques con polso leggero e caste integrazioni coloristiche. Due cembali e liuti, organo e regale, arpa, chitarra e lirone davano sostanza al basso continuo; cast tutto competente nello stile vocale protobarocco ad onta delle dizioni italiane non sempre immacolate, ma con Garry Magee solido protagonista, la soave Delphine Galou quale Penelope, più Philipp Ens (Nettuno), Sabina Puértolas (Minerva), Milena Storti (Ericlea) ed altri specialisti di rango. Non c’è proprio da lamentarsi.
Carlo Vitali