VENEZIA – Due musiciste che siedono in orchestra lavorando a maglia non era mai capitato di vederle. Imboccano antichi flauti a becco. E nelle pause danno i punti, tessono manicotti colorati. Ci danno dentro le Penelopi flautiste, tenendo d’occhio lo spartito. E ci ricordano, dall’alto della loro terza età, quale esperienza e humour animano gli English baroque soloists, l’ensemble quarantenne che sta girando l’Europa per celebrare i 450 anni di Monteverdi. Sir John Eliot Gardiner (nella foto mentre depone fiori sulla sua tomba ai Frari, ndr) ha confezionato un format da esportazione. Impianto scenico ridotto al minimo (una struttura a più livelli percorsa da una scala), costumi facili da imballare, cantanti pronti a ricoprire più ruoli. E poi le voci impareggiabili del Monteverdi Choir. Tutto in valigia per una tournée che toccherà i principali festival estivi (tra cui Salisburgo, Lucerna, Edimburgo), le piazze metropolitane europee che contano. E che in Italia si è assicurata la sola Fenice. Così Venezia ha reso omaggio, come meglio non avrebbe potuto, al suo celeberrimo maestro di cappella. Montando due cicli completi delle tre opere monteverdiane giunte fino ai nostri anni: per chi ha avuto la fortuna di ascoltarle un giorno dopo l’altro, un’esperienza indimenticabile. Prima di tutto per la qualità dell’esecuzione musicale. Viva, emozionante, autentica, perfino travolgente. La filologia, per Gardiner, non è il regno del pudore. Ma delle scelte difficili da compiere credendoci fino in fondo.
Quali strumenti far suonare, come farli suonare e dove – cioè con quali linee musicali. Interpretare Monteverdi significa soprattutto sciogliere questi nodi. Non è un mistero che la partiture del periodo veneziano, poverissime di indicazioni strumentali, siano un rebus per l’interprete. Ma anche quella di Orfeo, più generosa, non è così precisa. Gardiner, forte di una pratica pluriennale con questa musica (e per la quale il teatro gli ha conferito nell’occasione il prestigioso premio “Una vita per la musica”), dimostra di trovare soluzioni convincenti, appropriate, efficaci: miracolose nella resa di affetti ed effetti. A partire da quella di non modificare l’organico passando dall’incunabolo alle opere veneziane. Le fonti di Ulisse e Poppea, è vero, dicono che a Venezia nel Seicento lo strumentale era ridotto a una decina di esecutori, rispetto al più fastoso organico della corte mantovana. Ma per necessità, non per principio. E dunque qui il nutrito continuo e il coloratissimo “ripieno” (tutti e due spezzati a metà, a destra e sinistra del direttore) sono gli stessi per la festa teatrale così come per i più contrastati drammi in musica. Gardiner trova le combinazioni giuste, sbalzando le funzioni affettive e simboliche di violini, flauti, cornetti, tromboni, così come dei timbri solisti negli accompagnamenti alle voci. Accentando le articolazioni, o stringendo sui tempi di ritornelli e chiuse. Dettando un tempo teatrale serrato, ma senza prevaricazioni sulle voci. D’altra parte l’equilibrio era assicurato da un lungo training che – come ha riferito su queste colonne Paolo Petazzi un anno fa – ha preso avvio proprio alla veneziana Fondazione Cini. Qui c’era la fresca, intensa, rivelazione di Krystian Adam (Orfeo, Telemaco) e la sorprendente pasta canora ed espressiva di Gianluca Buratto (Caronte/Plutone, Tempo/Nettuno/Antinoo, Seneca); la voce importante, drammatica, ma a volte dura nelle intenzioni di Lucile Richardot (Messaggera, Penelope, Arnalta/Venere) e – ahinoi – quella incerta e scialba di Hana Blazikova (La Musica/Euridice, Minerva/Fortuna, Poppea/Fortuna). C’erano pure buone parti di fianco, tipo Zachary Wilder e Anna Dennis, teneri e ammiccanti Eurimaco e Melanto. Non mancava neanche la presenza di un veterano come Furio Zanasi, a sorpresa in difficoltà nei florilegi vocali di Apollo, ma nobile nelle toccanti prosodie di Ulisse.
La portabilità ha poi reso necessaria una movimentazione che solo tra virgolette si potrebbe definire regia. Però. Mostrare e disporre con fantasia voci e gruppi strumentali (non solo) sul palcoscenico è già “progetto” in Orfeo, l’opera che ha come protagonista assoluta la Musica e i suoi poteri. A partire dalla Toccata che risuona sul balcone esterno della Fenice, poi sotto il palco reale: una sigla, ritmata dal tamburo, che Gardiner stacca con un’allegria contagiosa. Per proseguire – ed è solo un esempio – nel gioco “seduttivo” tra Caronte e l’ammaliante arpa attivata dai suoni di Orfeo. Altrove, nei più concreti drammi veneziani, bisogna affidarsi alle realistiche prove dei singoli (o comico-realistiche, nel caso dell’Iro con birra e salsiccia di Robert Burt) o a risorse paracoreografiche. E talvolta, nel caso del ballo nella reggia di Penelope clonato da Tirsi e Clori e affidato alle voci inarrivabili del Monteverdi Choir, l’effetto teatrale è vorticoso. Da vera festa barocca.
Andrea Estero
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