interpreti R. Clarke, M.G. Schiavo, B. Ritter, C. Castronovo, C. Ifrim, J. Huijpen
direttore Gabriele Ferro
regia Graham Vick
teatro dell'Opera
ROMA
ROMA – Mancava a Roma da qualcosa come trentotto anni questo miracolo di scienza esatta coniugata col palpito cardiaco che è il Ratto, e del resto è lecito sospettare che a quest’opera presiedano spiriti di estraneità al sentire latino non facilmente aggirabili da nessun luogo teatrale nostro: la prima opera in lingua tedesca di Mozart si configura infatti come il vertice insuperato del genere e averci a che fare è impresa di non poco conto. Gabriele Ferro, chiamato dal Teatro dell’Opera a dipanarne oggi i sublimi tratti, è parso ispirato come raramente m’era occorso di registrare nell’accendere con pari empito la vibrazione sentimentale e lo straordinario rigoglio cameristico del capolavoro. Tempi, sonorità, levità di fraseggio, tutto è parso giusto e a misura naturale; e a coadiuvarlo v’era una compagnia di canto di totale estraneità al Gotha discografico ma di cui sarebbe difficile trovare oggi l’eguale per adesione di stile. L’avvocato del diavolo obietterebbe il suo almeno in quanto alla pronuncia, certo: un’italiana, un italoamericano, un romeno e un olandese, con l’unico supporto di idiomatismo della Blonde di Beate Ritter, austriaca di squisita presenza e adeguata bravura. Ma sarebbe roba da cercator di peli. Maria Grazia Schiavo è stata una Konstanze esemplare, che ha ottenuto il suo meritato credito nella "Marternarie", eseguita con magistrale abilità tecnica, e la Ritter le ha fatto da contrappeso nel decidere la indiscussa supremazia femminile in questa distribuzione; poiché né Charles Castronovo né Jaco Huijpen, pur complessivamente degni, sono sembrati esibire pari destrezza nell’eludere le molteplici trappole che il perfido ragazzo salisburghese aveva disseminato nelle parti di Belmonte e Osmin. Il tenore italoamericano affronta il giovane amoroso con discreta baldanza e buona tenuta dei fiati ma ha un centro troppo sfogato per delinearne la puberale ansia d’amore; mentre l’olandese Huijpen ha voce calda e robusta ma denota limiti di estensione in basso. La parte di questo rabbioso antenato di Hagen che è l’orchesco Osmin, situata al confine dell’ineseguibilità, Mozart l’aveva scritta per il basso Johann Ignaz Fischer, al quale pare non fosse precluso nemmanco il re sotto il rigo; ma oggi, scomparso questo ben di Dio, è d’uopo arrangiarsi; ed è già tanto che il buon Huijpen emetta suono, sia pur flebile, anziché aria. La citata Ritter e il romeno Cosmin Ifrim, Blonde e Pedrillo, completavano infine con giustezza il cast; ma la cosa da sottolineare è che nessuno ha concesso spazio a quella pratica del "mozartese" che ci ha afflitti per innumeri anni: niente moine, niente bel porgere, niente statuine di Capodimonte, ma un canto vivo, intriso di sangue e voluttà, pronto a incrinarsi là dove Mozart esige la inviolata trepidazione della gioventù e del suo inappagato desiderio. E il supremo quartetto che chiude il secondo atto è in tal senso un momento di inesprimibile grandezza, forse mai più raggiunto.
La regia di Graham Vick ha apportato di suo la elegante sobrietà di uno scenario astratto, entro cui dominava un cubo multiuso, a tempo e luogo cielo azzurrino o interno di una stanza orientale, con porte che si aprono e chiudono di continuo a decidere dell’instancabile moto perpetuo dei personaggi. E quale intelligenza dell’accadere scenico. Si rammenterà a lungo la scena del colloquio tra Selim (un appropriato Rodney Clarke) e Konstanze: una sequenza di quasi imbarazzanti silenzi a corredo di un Singspiel finalmente riprodotto per intero (a dispetto del pessimo funzionamento dei sopratitoli), che ha dato il senso e la cifra della teatralità di questo regista, attento sempre all’inezia che fa risaltare la verità. Unico dubbio: elusi con ammirabile buon gusto gli immancabili cachinni che pesano da secoli su Osmin, Vick ha però proposto una lettura fin troppo monocorde, quasi che il Ratto fosse una favola oscuramente dominata dal "serio". Il serio è una delle molle drammaturgiche di questa fiaba germanica, ma non l’unica; gli fa da contrappeso, a statuirne la magica ambivalenza, un senso del giocoso e dell’indeterminato che solo la mente di Mozart era in grado di escogitare, e che qui è mancata almeno in parte. Ebbe le sue ragioni Carl Maria von Weber allorché affermò che “il mondo aveva diritto di aspettarsi da lui parecchie opere come il Figaro o il Don Giovanni. Ma con la migliore volontà non avrebbe potuto scrivere un altro Ratto dal serraglio”. Ci provò col Flauto magico, ma non fu esattamente la stessa cosa.
Aldo Nicastro