interpreti H-E. Müller, J-F. Gatell, M. Werba, P. Lobert, H. Sabirova, D. Roth
direttore Erik Nielsen
regia David Mc Vicar
teatro dell'Opera
ROMA
ROMA – David Mc Vicar non ha avuto finora una vera consacrazione in Italia, ove egli è noto ai più per la fama ormai consolidata altrove che non per reali presenze sui nostri palcoscenici. Dopo una sua prima apparizione, salvo errore, a Trieste nel 2005 con un Faust accusato di blasfemia ma per mio conto godibilissimo, soccorre adesso questa produzione del Covent Garden della Zauberflöte che l’Opera di Roma s’è accaparrata con tempestività e che infine consente di riconoscere nello stimato scozzese uno dei talenti maggiori dell’attuale regia operistica. Rinunciando a qualunque solarità la scena approntata da John Macfarlane si prospetta costantemente scura, fino alla tetraggine, con aperture sul fondo che ritraggono di volta in volta il corrusco cielo stellare della Regina della Notte, i laboratori alchimisti e la luce rosso intenso della loggia di Sarastro. Pure, in tal cupo habitat McVicar escogita singole, felici isole di delizia umoristica, forse a voler rammentare come il genio mozartiano conservi intatta la propria facoltà di mischiare di continuo le carte. E se la finale asseverazione alle magnifiche sorti e progressive propugnata da quell’irrimediabile rompiballe di Sarastro e della sua corte di oratori e cerimonieri resta un doveroso dato di devozione etnica al germanesimo, a noi rimane più vivo il ricordo di quanto a tal asseverazione continuino ad opporsi l’aspro, doloroso bagliore notturno di Astrifiammante, le buffonerie di Papageno e della sua promessa sposa, le lacerazioni gravide di incertezze degli innamorati, che hanno perso forse lo slancio puberale di quelli della Entführung ma cantano con più scoperto pudore l’analogo inno alla forza della passione. Deliziosa, per dire, la controscena dell’anatra intenta a saltabeccare fra le panie disposte da Papageno, come intriganti le apparizioni di Papagena, non più vecchietta sdentata ma prima ragazza punk e poi equivoca signora in giacca di pelliccia, fino a comparire alla fine in una sorta di dormeuse qual dea scollacciata e foriera di infinite promesse all’infoiato compagno. E bellissimo l’enorme albero sotto cui si avvicenda bestiame variopinto attratto dal flauto di Tamino, mentre gli scherani di Monostatos si ritrovano a ballare, domati. sui ritmi dei campanelli di Papageno.
Dicevo però dell’esecuzione musicale, indubbio pendant alla qualità dello spettacolo: la bacchetta di Erik Nielsen ha spronato a grado a grado l’orchestra del teatro a dar risalto sempre più nitido alla variegata tavolozza timbrica dell’opera. Misurandosi con la lingua tedesca dopo la grande stagione dapontiana, Mozart approda consapevolmente alla maestà della tradizione altogermanica, bachiana in ispecie. E ivi il giovane maestro è parso produrre i suoi risultati più convincenti: risoluti gli affondi di ariosità religiosa nel corale susseguente alla parola dello Sprecher (un ottimo Detlef Roth) e il sapiente contrappuntismo degli Uomini Armati; mentre l’Ach, ich fühl’s di Pamina veniva tinto di quella sublime purezza che rinvia direttamente alle arie delle Passioni.
Ma del pari all’altezza, nel suo complesso, il team vocale convocato. Su tutti, a mio vedere, la splendida Pamina di Hanna-Elizabeth Müller, cantante di cui sarebbe lecito risentir parlare per l’eccellente manovra dei fiati e la grande bellezza, vocale e scenica; ma ben in vista anche il Tamino di Juan Francisco Gatell, il Sarastro imponente di Peter Lobert e il Papageno di Markus Werba. Mentre tutte le parti minori (ma quanto minori?) facevano con coscienza il loro: dalle tre dame ai due uomini armati, dal terzetto dei fanciulli, chissà perché appannaggio femminile (ma il Bald prangt con Pamina è parso uno dei punti di spicco dell’intera serata) allo Sprecher di Roth e al Monostatos di Kurt Azesberger. Simpaticamente sbrigliata, infine, la Papagena di Sybilla Duffe; mentre unico, ma gravoso neo, va individuato, ahimé, nella Regina della Notte di Hulkar Sabirova, impari davvero a sbrogliare le patenti asperità belcantistiche del mirabile personaggio. Il pubblico, impietoso, non la perdonò; ma deve ammettersi che quella parte, o la si possiede o è meglio lasciar perdere.
Aldo Nicastro
(questa recensione compare sul numero 155 di "Classic Voice", aprile 2012)