VERONA – A mio avviso, lo spettacolo areniano più riuscito di Zeffirelli. Bizzarro che proprio in un luogo scenograficamente tra i più elefantiaci e dunque propinatore di sfiancanti pause interne, si sia risolto in modo brillante lo spinosissimo problema narrativo del Trovatore, quello dei siparietti e degli intervalli che spesso fanno durare le pause tanto quanto la musica, e comunque spezzano inevitabilmente la tensione. Qui, l’opera potrebbe andare avanti senza interruzione alcuna: e dunque, nessuna pausa interna e un solo intervallo. Fantastico. Poi, la scena (firmata Zeffirelli, scenografo sovente più notevole del regista) è bellissima nella sua relativa essenzialità e nel suo lasciar del tutto sgombri i gradoni a fungere – mediante luci opportune, eccellenti – da “atmosfera”: tre torri metalliche, la centrale delle quali, più alta, che si apre nelle scene del convento e della prigione rivelando uno smagliante retablo prima e un oscuro intrico alla Piranesi poi. A chiudere la scena, ai due lati si ergono due gruppi scultorei di armigeri in lotta. E basta. Certo, sfilate e sfilatone non mancano, comprensive di un centinaio di incappucciati avviati a officiare l’esecuzione di Manrico: ma siamo pur sempre in Arena, e per me aveva ragione Vick quando disse che in un palcoscenico così mica puoi metterci solo un portaombrelli e una sedia. E personalmente, da amante del melodramma melodrammatico, mi vanno benissimo anche i due cavalli bianchi in groppa dei quali Manrico e Leonora (tenendo uno smagliante acuto…) se ne vanno dal convento a far cose più divertenti. Si poteva magari, sempre per via dell’esaltare melodrammaticamente il melodramma, chiamare un direttore un po’ meno menapolenta di Morandi, coi suoi tempi mollaccioni e Ground Zero di capacità narrativa: ma pazienza, come in tanti Trovatori del buon tempo andato c’erano le voci, caspita. D’accordo, tre su quattro (ma il Ferrando di Riccardo Fassi, quantunque un filo leggerino, era assai buono) giacché Dolora Zajick di voce non ne ha più e artista non è stata mai quindi figuriamoci adesso: ma gli altri…
Yusif Eyvazov ha voce brutta, si sa: però è tanta e soprattutto sa come poggiarla sul fiato, proiettarla con morbida omogeneità, farla squillare con brillantezza, accenderla in un fraseggio che indirizza l’ottima dizione verso una tavolozza accentale varia, incisiva, di soggiogante comunicativa: per giunta è dimagrito assai, e in scena sta benissimo. Luca Salsi è il miglior baritono che qualunque teatro possa oggi sperare, quindi che il suo Conte sarebbe stato da ascoltare era ipotizzabile: pure, ben bizzarro che proprio in Arena si sia sentita un’aria così chiaroscurata, coi fa acuti proprio “dolcissimi” come sarebbe – per lo più vanamente – prescritto, con la scorbutica forcella di “le favelli in mio favor” sgranata alla perfezione, con gli innumerevoli ppp sparsi a pioggia tutti eseguiti, ivi compresi i sol acuti della “tempesta del mio cor”. Memorabile. E poi lei, Anna Netrebko. Voce alluvionale ma di timbro stupendo più che mai. Fiati eterni, con legati di sofficissimo velluto, smorzandi sbalorditivi, acuti al fulmicotone là (e solo là!) dove prescritti, privilegiandosi un canto tutto sfumature, sensuali languori, lunari melanconie. Coloratura tuttora esattissima, onde un “Di tale amor” esaltante, ma soprattutto un “Tu vedrai” (entrambe le cabalette ripetute, tra l’altro, variando con stile perfetto intensità e colori) portato letteralmente al calor bianco. Una Leonora che in tutta la mia lunga memoria d’ascoltatore ha un solo paragone possibile: la miracolosa Caballè fiorentina del ’68. Però molto, molto, molto più espressiva e carismatica.
Elvio Giudici
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