Orontea veste Prada

Alla Scala convincente riproposta dell'opera di Cesti: una satira della società contemporanea
MILANO
Cesti
L’Orontea
direttore Giovanni Antonini
regia Robert Carsen
teatro alla Scala

 

All’inizio del Primo Atto Orontea dichiara che “Superbo Amore… Regnar non speri” nel suo cuore. Ma già nell’aria successiva, dopo aver incontrato il giovane e bellissimo pittore Alidoro, ci ripensa: “Qual insolito foco mi tormenta e diletta a poco a poco?”. Non si era mai vista, all’opera, una regina “sgelarsi” così in fretta. In questa trasformazione tanto rapida c’è il mondo dell’Orontea di padre Antonio Cesti, compositore di punta dell’opera seicentesca che trasformò un fortunato soggetto veneziano in un melodramma destinato a restare sulle scene teatrali – dopo il debutto a Innsbruck nel 1656 – per almeno venticinque anni. La “gioiosa frenesia erotica” (Lorenzo Bianconi) percorre dall’inizio alla fine libretto e partitura, all’insegna del continuo voltafaccia affettivo. E l’“affetto” è un virus che va e viene: colpisce a intermittenza, con effetti a cascata sui personaggi secondari.

Lo spettacolo

L’irresistibile commedia ha una velocità espressiva che trova nello spettacolo di Carsen la sua più giusta traduzione scenica. Alla Scala Orontea è l’inscalfibile ma vogliosa direttrice di una galleria d’arte con uffici affacciati sulla nuova Milano delle torri Unicredit e dei boschi verticali: immaginatela come Miranda Priestly del Diavolo veste Prada. E La trasposizione (ma chi si sognerebbe oggi di ambientarla in un Egitto nel libretto quasi inesistente?) funziona alla perfezione perché restituisce il clima sapido, pettegolo, cinico dell’originale. La scena di Gideon Davey, bianchissima e geometrica come comandano gli interior designers alla moda, è un meccanismo che, ruotando, ci va visitare i vari piani dell’impero-grattacielo di Miranda/Orontea: dal roof garden fino ai sotterranei dove la vecchia Aristea (spassosa e capace Marcela Rahal) seduce gli aitanti magazzinieri della maison.

Lo spettacolo di Carsen è una delizia: racconta la storia e le sue futilità mettendo alla berlina i capricci della società, e dell’arte, contemporanea esattamente come accadeva in Cesti e Cicognini/Apolloni (librettisti). E se nell’instabilità amorosa conta anche la “ragion di stato” (Alidoro è un “plebeo” di cui la regina non dovrebbe invaghirsi), irresistibile è l’idea che qui sia uno spiantato artista di strada, un graffitaro (o un genio alla Basquiat?), che tenta di sedurre la regina del Art Market trasformandosi alla fine in un creativo dall’outfit modaiolo, che nei suoi quadri dipinge solo se stesso: svolta “immorale” forse non prevista, ma del tutto coerente con l’estetica libertina dell’opera, sancita da un trionfo dell’amore che è un cocktail party post vernissage tutto pose fotografiche e cover story, ovvero il festival dell’apparenza e dell’ipocrisia. Non è possibile riferire dei tanti particolari scenici e gestuali che rendono prezioso e centratissimo questo spettacolo: basti la scena del riconoscimento che sblocca la vicenda (Alidoro ha in realtà origini nobili) condotta dall’“interrogatorio” di Orontea e risolta con il cadenzato e rapido ingresso dei personaggi in scena, ciascuno sulla sua risposta, in una sorta di “dentro tutti” che sbalza alla perfezione la velocità della scrittura teatrale.

La musica
Il progetto, voluto dal sovrintendente uscente Dominique Meyer, di portare alla Scala l’opera delle origini – Cavalli, Vinci, ora Cesti – si scontra di nuovo con l’oggettiva inadeguatezza della sala del Piermarini: troppo grande per quei fragili organismi sonori. Ancora più meritevole è dunque il lavoro svolto da Giovanni Antonini con l’“orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici”. Più che il continuo, non così fantasioso, o la timbrica strumentale, che si staglia e arriva poco, colpisce il passo incalzante, e il respiro avvolgente, espressivamente partecipato, con cui inanella declamati, ariosi, canzonette e arie di danza vere e proprie. Quest’ultime, in Cesti, sono più numerose che in passato, e compaiono anche sulla bocca di personaggi nobili. C’è un nuovo “ceto medio” vocale, che – tra gli estremi del tragico e il comico – intona il registro lirico, languido, amoroso. Lo realizza molto bene la seconda coppia, Francesca Pia Vitale (Silandra) e Hugh Cutting (Corindo), mentre la prima, Stéphanie D’Oustrac (Orontea) e Carlo Vistoli (Alidoro), eccelle per personalità di voce e bravura scenica, sfoderando mezzi vocali di alto rango. Tutta la locandina è appropriata: il Gelone sempre “imbriaco” di Luca Tittoto, sagace ma non burlesco, il mercuriale Timbrino di Sara Blanch, la soave Giacinta en travesti di Maria Nazarova, il nobile Creonte di Mirco Palazzi.
Andrea Estero

 

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305 Ottobre 2024
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