MILANO – Il minuto, infinito, di musica in più alla fine di questa Tosca, che poi Puccini decise di tagliare per apparire più “moderno”, ci insegna che anche i capolavori più familiari possono riservare sorprese. E questo vale pure per le opere, come Tosca, pietrificate dal loro stesso mito. Rileggere questo Puccini in termini nuovi sembrava impossibile, eppure l’operazione filologica – a contrario – lo ha consentito. Tosca come opera di azione: cinematografica. Il termine, sempre abusato, stavolta ci sta. Perché quello che non c’era in Bohème e che il compositore inventa è proprio questo: il precipitare unico di un fatto che si srotola davanti ai nostri occhi attraverso un montaggio di eventi dettato dalla musica. Prescritto al suo interno. Se la Bohème era un romanzo che si sviluppa in più anni, la partitura di Tosca è una sceneggiatura filmica da vedere tutta d’un fiato. Non per niente le poche oasi liriche (tre le “romanze” vere e proprie) sono ricordi di pezzi di vita passata, flashback lirici.
Da questo punto di vista l’impianto scenico affidato dal regista Davide Livermore allo studio Gio’ Forma è giusto, ancorché di formato “kolossal”: pare che ormai la Scala per la sua “prima” non possa rinunciarvi, e non si capisce perché. Il piano sequenza immaginario, con le architetture di Sant’Andrea della Valle in continuo movimento a simulare le posizioni della cinepresa, è macchinoso e a tratti superfluo (qualcosa si inceppa pure al momento del secondo ingresso di Angelotti), ma funziona nella misura in cui consente di scontornare retropensieri e “primi piani” emozionali. Succede nel finale del primo atto, quando il sollevarsi della basilica durante l’opprimente Te Deum lascia sprofondare Scarpia nelle sue malefiche intenzioni, in una prova sontuosa di voce solista, coro e orchestra. Succede nel secondo quando il buio cala sulla reminiscenza di Tosca (“Vissi d’arte”) e nell’intrigante finale in cui la protagonista si staglia nel nero della scena come una Prima Donna che sdoppiandosi rivive l’omicidio appena compiuto in una sorta di performance teatrale, col bel costume azzurro sporcato da Gianluca Falaschi di rosso sangue a ribadire il senso ambiguo della “recita”. Succede alla fine, in un quadro onirico ricavato all’interno delle pareti di Palazzo Farnese di fronte a una gigantesca ala che allude a Castel Sant’Angelo, quando Tosca sulla inedita espansione sinfonica che rielabora “wagnerianamente” il tema di “E lucevan le stelle”, invece di suicidarsi ascende in cielo, immersa in fasci di luce: un po’ santa barocca, un po’ eroina d’opera trasfigurata e redenta, un po’ appariscente Diva di teatro che conclude la sua scena madre.
Nella dinamica tra azione e lirismo, tra pieni e vuoti, tra fatti e zoomate nell’interiorità dei protagonisti, la direzione di Riccardo Chailly, coglie i dislivelli del racconto alternando la stringente necessità dell’azione, le iperboli sonore, con le subliminali trasparenze, senza peraltro oscillare troppo tra gli estremi ma mantenendo un perfetto “montaggio”: in grado di raccontare, ma anche di dar peso ai colori delle straordinarie intuizioni armoniche pucciniane. Quella di Chailly non è una Tosca di tradizione o “verista”, ci mancherebbe. Chailly peraltro non condivide fino in fondo neanche l’opinione di Fedele D’Amico sull’ “espressionismo” dell’opera, “sorella di Salome, Elettra e Wozzeck”. Il modello del direttore milanese, che nel progetto Puccini sta investendo tutto il suo prestigio e la sua credibilità di interprete consapevole e informato, è Mahler. Nel passo sinfonico, ma flessibile e stondato, quasi “liberty”, adottato dal maestro c’è la sintonia col decadentismo mahleriano. Questa sensibilità si coglie sempre ma soprattutto nell’ultimo atto: con la Nachtmusik d’esordio, immobile e incantata; con gli alleggerimenti dialettali e popolareschi, con le amare, rilevate, esclamazioni degli ottoni a punteggiare la romanza del tenore, con le grandi, rapsodiche, perorazioni sinfoniche, a cominciare da quella conclusiva.
Una Tosca così non può prescindere da voci capaci di slancio ma musicalmente educate. Mancano le estroversioni di tradizione, per fortuna. E abbonda la capacità di “dire” una drammaturgia costruita in buona parte su una conversazione modernissima per l’epoca. Il secondo atto vede fronteggiarsi Anna Netrebko e Luca Salsi in una tenzone dialettica governata a dovere dagli accenti insinuanti, ironici, straziati. Senza mai ringhiare troppo. Nelle romanze dominano le belle, pastose, modulate voci dei protagonisti, con Netrebko e Meli in grado di affondi e ritenzioni vocali adatte a restituire alle “oasi” liriche la loro natura operisticamente eccentrica, tra rimpianto e reminiscenza. E la presenza di un sagrestano infido, bieco, senza eccessi e caricature, di Alfonso Antoniozzi, è la prova che tutti hanno remato nella stessa direzione.
Andrea Estero
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