interpreti J.DiDonato, D.Barcelloona, A.Esposito, L.Brownlee direttore Michele Mariotti regia David Alden teatro Bayerische Staatsoper
MUENCHEN – Monaco non conosceva quest’opera, e lasciamo stare le considerazioni al riguardo. Ma forse è stata addirittura fortunata. Non ha subito le tante bacchette improvvisate o sprovvedute o incapaci o tutt’e tre, che si sono succedute nel mezzo secolo trascorso: alla Staatsoper, hanno avuto subito il capolavoro. Michele Mariotti smise d’essere una luminosa promessa quando sei anni fa diresse a Pesaro il quasi ignoto Sigismondo: divenne allora il direttore a parer mio migliore che Rossini potesse sperare; lo è rimasto; e attinge adesso a un vertice per alcuni versi superiore persino a quello raggiunto col Guglielmo Tell. Una concertazione strepitosa fornisce prima di tutto lo stile giusto a un’orchestra strepitosa che lo comprende e sa farlo proprio. Poi, costruisce la monumentalità architetturale rendendone però discernibile ogni più minuto tassello: e giustifica lo stratificarsi ripetitivo scovandone ovunque il significato espressivo, attraverso lo sfrangiarsi continuo degli spessori, delle dinamiche, delle agogiche, realizzato con una simbiosi non meno che sbalorditiva tra strumentale e voci. In quest’ottica va anche inquadrata la scelta pienamente moderna (perché pienamente teatrale) delle variazioni: niente florilegi più o meno consoni alle diverse tipologie vocali da celebrare, bensì celebrazione del genio di Rossini col ripetere le note medesime diversificandole però nel colore, nell’accento, nella dinamica (soprattutto nella dinamica, spinta fino a sussurri di squassante violenza drammatica; per non dire di certi veri e propri silenzi che spalancano abissi sonori d’inquieta nevroticità), e insomma nel moltiplicarsi delle ramificazioni psicologiche. Dicevo della straordinaria, totale simbiosi tra strumenti e voci (che è ben più e ben meglio d’un semplice accompagnamento, per buono che esso sia): il cast, già superbo di suo nonostante soprano e basso siano debuttanti nelle rispettive parti – al pari peraltro del direttore -, ne riceve ulteriore spinta.
Temevo parecchio, per Joyce DiDonato: quel vibrato largo e quella generale, ben percettibile fatica nel risolvere l’Elena della Donna del lago al Met due anni fa non erano bei ricordi. Tutt’altra cosa per una parte che evidentemente le è più congeniale. La linea ferma, morbida, omogenea lungo l’intera non esigua estensione consente di variare fino all’infinitesimo la dinamica e dunque di lavorare sul colore e sull’accento: un caleidoscopio di sfumature tutte accomunate da un senso perenne d’inquietudine, di smarrimenti angosciosi generatori di repentine, spasmodiche fughe in avanti, con una logica teatrale assoluta nel ribaltare talune semplificazioni caratteriali per spalancare invece voragini tormentose. Il duetto Semiramide-Assur è la chiave di volta d’una costruzione drammaturgica principiata con un “Bel raggio” niente festoso ma al contrario febbricitante d’incertezza, proseguita con un duetto con Arsace dove il desiderio di un legame è ricerca non tanto di sensualità quanto di sicurezza: quello che, sul cuscino variegatissimo dell’orchestra, riescono a esprimere DiDonato ed Esposito, non è soltanto il pieno scoprimento dei famosi “accenti nascosti” di cui parlava Rossini stesso (e che in Semiramide, s’è per questo, sono assai meno nascosti che altrove, semmai difficili da estrarre da così monumentale impianto per tacere della difficoltà esecutiva che rischia di drenare ogni altra preoccupazione), ma piuttosto la lampante dimostrazione dell’immensa statura drammatica rossiniana.
Assur. Che è un Alex Esposito giunto alla sua piena maturità di cantante e ancor più d’artista. La scolpitura al rasoio d’una coloratura infernale fin dall’inizio (con quegli impossibili saliscendi entro il grandinare di mi e fa acuti, dove il prendere fiato diventa un vero e proprio rebus); la musicalità strumentale: la pienezza e corposità della linea, indispensabile a rendere la protervia imperiosa di Assur, cui la bellezza timbrica conferisce di per sé un’ombra sensualeggiante oltremodo consona al personaggio: simile materiale vocale definisce il cantante. Che pure è in seconda linea rispetto a quanto esso consente alla fantasia e alla sensibilità di un artista capace d’impiegarle a fondo. I recitativi, ad esempio: tutti li curano al meglio, ma Esposito – che si vale d’una dizione di estrema nitidezza – li rende una miniera di notazioni espressive, che sfaccettano una personalità contorta, lasciva, cupa, resa nevroticissima da un vissuto torbido che non è riuscito a sedimentarsi e tracima proprio nella vocalità tutta sbalzi e fiondate dalle vette agli abissi, apici appunto la suddetta scena con Semiramide, prodromo a una scena della follia dalla potenza non meno che portentosa.
Daniela Barcellona è Arsace: personaggio più lineare, espressivamente parlando, ma certo non meno arduo. Lo risolve magnificamente. Linea ampia, poggiata su un’emissione dalla solidità ancora superba e quindi ferma, sicura, omogenea, con una morbidezza che il timbro fascinoso accentua e con uno sgranarsi delle colorature – tanto quelle lente quanto quelle di fosforescente rapidità – che restano tuttora senza paragone vincente. Lawrence Bronwlee subisce il taglio di una delle due arie di Idreno (altri tagli, imposti a Mariotti dalle necessità che la programmazione tecnica del teatro impone, riguardano i da capo del duetto Assur-Arsace e del concertato al finale primo, più una manciata di recitativi), ed è un peccato: l’altra lo conferma tenore ragguardevolissimo per tecnica, musicalità, sicurezza, espressività.
Alden, a Monaco, ha scritto pagine capitali (Monteverdi, Cavalli, Haendel, Wagner) nel libro della regia moderna. Al suo primo Rossini, realizza pagine di geniale teatro da camera come il duetto tra Arsace e un Assur sempre più schizzato che alla fine cita l’Hitler di Chaplin che maneggia il mappamondo; come il citato duetto Assur-Semiramide; come il terzetto finale, coi personaggi tutti al proscenio e bloccati in gesti stilizzati che una volta di più pagano dividendi teatrali infinitamente maggiori dello scalmanarsi. In mezzo, ahimè, alcuni quiz facili (il bambino che fu Ninia e nel quale Arsace alla fine si riconosce), altri molto meno ma comunque altrettanto interlocutori, frammisti a scivolate vere e proprie come le farfalle che in video svolazzano tra cader di cascate alle spalle di Semiramide impegnata nel “Bel raggio lusinghier”, mutandola in Biancaneve che dal verone sulla campagna aprica cinguetta agli uccellini.
Elvio Giudici
La versione completa della recensione è pubblicata nel numero 214 di “Classic Voice” (marzo 2017)