interpreti E. Buratto, A. Zada, A.M. Chiuri, A. Maestri, M. Pertusi, R. Zanellato direttore Riccardo Muti orchestra e coro dell'Arena di Verona
VERONA – Davvero sono da usare i toni del trionfo per come Riccardo Muti ha diretto l’Aida aprendo il cartellone dell’Arena di Verona. C’è da restare di sale a vederlo, alla soglia degli 80 anni, con un’energia da far invidia a un ragazzo, pronto, lungo l’intero arco dell’esecuzione, a soccorrere, alleggerire, enfatizzare, governare, mentre, con compagini che meglio conosce, può permettersi di economizzare il gesto, di lasciar correre, di concentrarsi sul particolare. Dopo tutto, tornava nell’anfiteatro a distanza di una vita dalla sua prima (e unica) apparizione su quel podio, datata 7 agosto 1980: un Requiem di Verdi dedicato alle vittime della fame e della violenza nel mondo, a pochissimi giorni dalla strage di Bologna. È naturale, quindi, il grande lavoro che ha dovuto affrontare con le formazioni areniane per ottenere quell’esito che, se non è stato superiore, è soltanto per la fiacchezza degli ottoni. Ma vien da commuoversi di fronte a uno scavo della partitura, a una passione, a una dedizione che, ancora oggi, lo confermano – è inutile ammantarsi di retorica: è un dato di fatto – il principale ambasciatore della nostra musica. Allora, un’Aida in forma di concerto, nel 150° della sua prima rappresentazione al Cairo, nel luogo dove è l’opera simbolo e dove le messinscene faraoniche non sono mai mancate, ha senso solo se è lui a dirigerla. Che poi, quella di Muti non è stata un’interpretazione muscolare, tutta improntata alla magniloquenza, alla solennità, anche se la potenza tellurica, come nel caso della chiamata alle armi dell’atto primo, non è certo trascurata. Secondo la visione che emerge, è, Aida, prima di tutto una faccenda privata, intimista, che si innesta poi nelle logiche della ragion di Stato. Ecco, allora, che la protagonista è l’appassionata Eleonora Buratto, la migliore del cast, dotata di centri poderosi e capace di sciogliersi in suadenti abbandoni, come quando invoca “Numi, pietà del mio soffrir!” e osserva “Amor fatal, tremendo amor” nel “Ritorna vincitor!”. Molto bene, però, è anche Anna Maria Chiuri, chiamata a sostituire in extremis l’indisposta Anita Rachvelishvili: al di là delle qualità vocali, sfoggia un lodevole grado di immedesimazione col proprio personaggio, attribuendo ad Amneris una sottigliezza, una malizia che molto spesso vengono sacrificate in favore della sfrontatezza, dell’arroganza. Il Radàmes di Azar Zada è poi corretto: non brilla per potenza, per impulsività, per impeto giovanile, ma, nel complesso, se la cava egregiamente. Assai bene il Ramfis di Riccardo Zanellato, l’Amonasro di Ambrogio Maestri e il Re di Michele Pertusi, anche se il vero re all’Arena è stato un altro, fin dall’applauso iniziale che l’ha accolto.
Alex Pessotto
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