interpreti L. Monastyrska, S. Neill, M. Cornetti, A. Dobberdirettore Omer Meir Wellberregia Franco Zeffirelli ripresa da Marco Gandiniteatro alla ScalaMILANO
MILANO – Com’eravamo. Con lo stesso piacere di riguardare i varietà nelle schegge tappabuchi della programmazione televisiva andrebbero rivisti questi e altri spettacoli legati alla nostra memoria. Ammirandone la magia delle soluzioni visive. Ma senza illudersi di una loro possibile reviviscenza. E questo a prescindere dalle proteste d’autore del giorno dopo. O anche dai ricordi di chi c’era, divisi sulla “autenticità” del lavoro di rimontaggio scaligero. Dopo aver visto quello che si passa in giro, l’Aida 1963 rimane non più che un pezzo di storia. Non aprioristicamente gloriosa. Ma con alcune, circoscritte, virtù: l’ingegnoso sfumato tra elementi scenografici e tele dipinte realizzato da Lila De Nobili, che con le giuste luci restituisce un clima seducente, di esotismo salgariano; l’illusionismo delle scene di massa, col palcoscenico tagliato in diagonale per allungarne il percorso e il formicolare di donne e bambini intorno ai simboli del trionfo. Grande mestiere negli anni dei Ben Hur. Ma il formato kolossal lascia scoperte tutte le altre dimensioni: anche se al posto dell’insopportabile gestualità da filodrammatica del tentato restauro ci fosse stata una recitazione più curata, sarebbe stata fatalmente appiattita sulle convenzioni che si sposano con un impianto scenografico così bello e invadente.
Luci e ombre anche sul versante musicale. A partire dal cast sentito che è rigorosamente quello della seconda: il primo, già sulla carta, era da retrocedere. E ha avuto gioco facile il loggione a ricordarlo, in primis alla direzione artistica. Liudmyla Monastyrska, Stuart Neill e Marinane Cornetti quantomeno hanno voci (e fisici) abbondanti, sostenute da buona tecnica. Quello che manca del tutto è la sensibilità per la parola verdiana. Per non dire già di quella italiana. Dove sono i “marcatori” alla Beckmesser della Scala? A questa recita l’ineffabile loggione, sempre un po’ strabico in fatto di contestazioni, non ha più fischiato Omer Meir Wellber. Forse l’orchestra, accusata pubblicamente di remare contro, è tornata al lavoro. Ne è emersa la notevole sensibilità direttoriale per le raffinatezze timbrico-strumentali sciolte in accompagnamenti mai approssimativi. Ma anche l’incapacità di serrare le file e i tempi nelle grandi scene d’insieme e tutte le volte che lo richiedono le ragioni del dramma. Per Verdi sempre superiori.
Andrea Estero
(questa recensione compare sul numero 154 di "Classic Voice", marzo 2012)