interpreti M.Carosi, M.Alvarez, M.Cornetti, M.Vratogna, G.Prestia
direttore Nicola Luisotti
regia David McVicar
teatro Covent Garden
LONDRA – Si può fare un’Aida senza Egitto? Altroché. Ha senso? Certo che sì. A cosa serve, difatti, drammaturgicamente parlando, l’Egitto? Solo a proiettare lontano lontano qualcosa che nell’ultimo quarto dell’Ottocento era troppo vicino per non dare fastidio: una guerra di conquista, ovvero coloniale. Ma il succo vero del dramma riguarda pur sempre un triangolo amoroso: reso però infinitamente più complesso dall’essere condizionato non più solo da se stesso bensì da logiche di potere nelle quali il fanatismo religioso gioca ruolo di primo piano. E se dunque le vedessimo da vicino, per una volta, tali logiche? Altrimenti detto: e se provassimo a raccontare per davvero la storia di Aida quale s’evincerebbe da musica e testo, anziché dalla cosiddetta tradizione esecutiva?
Ecco allora McVicar immergerci in un buio che nessun raggio di sole interrompe: mai. Il sipario trasparente davanti al quale comincia a srotolarsi il preludio, ricorda le tele di canapa di Mark Rothko: ma i suoi tipici riquadri hanno i colori virati sul grigio e nero; e dietro, ecco delinearsi un monolito astratto che sulla sua parete ruvida ha infisse delle lance. Simbolo della società che immediatamente ci si para davanti: una teocrazia dove il concetto di sacrificio è prima regola di vita. I sacerdoti controllano i capi militari che li attorniano, ciascuno speranzoso della nomina caduta su Radamès che esce appunto da quel gruppo. Ma controllano anche l’esecutivo, i sacerdoti: Amneris entra in scena attorniata da ancelle che la temono e ne hanno evidente paura (“Vieni o diletta”: diletta? con quella mano che con violenza ne solleva il capo chino guardandola sprezzantemente. Non è un invito, quel “vieni”, è un ordine protervo), ma lei stessa getta ai sacerdoti sempre presenti occhiate altere, sì, ma nel fondo anche ansiose. Il Re arriva in scena vecchio cadente, con al guinzaglio un uomo-cane dorato, simbolo d’un potere condizionato dalla casta religiosa che lo ingloba controllandone ogni gesto. (…)
Luisotti, nonostante un’orchestra (e un coro, ahimè) alquanto debolucci, tali conflitti li delinea con efficacia formidabile: tempi spediti e sonorità energiche per il quadro d’assieme, nel quale i ripiegamenti lirici si ritagliano sfumature mirabili ma dove i colori hanno la densità cupa della minaccia, presente anche quando pare invisibile (anzi, soprattutto allora). (…) Micaela Carosi è la migliore Aida che un teatro possa oggi sperare: grande voce (da quando non si sentivano i do del concertato venir fuori con simile luminosa autorità?), bella, benissimo emessa e sostenuta, quindi capace di piegarsi a fraseggi sempre vari, intensi, sfumatissimi. Molto bene Marianne Cornetti: voce ampia, sicura e omogenea tanto su quanto giù, senza sbracature ma con un’intensità di vibrazione emotiva quale non le si era ancora mai sentita. Marcelo Alvarez debuttava Radamès: qualche comprensibile prudenza al prim’atto, ma una scena del Nilo chiaroscuratissima e con mezze voci paradisiache. (…)
Elvio Giudici
(La versione completa di questa recensione compare sul numero 133 di Classic Voice, giugno 2010)