Verdi – Attila

interpreti I.D’Arcangelo, M.J.Siri, S.Piazzola, F.Sartori 
direttore Michele Mariotti
regia Daniele Abbado
teatro Comunale
BOLOGNA
Bologna ph Rocco.Casaluci

BOLOGNA – Momento eccezionalmente felice, questo che stiamo vivendo, per una maggiore comprensione di cosa davvero sia il primo Verdi. Non per riscoprirlo, intendo, ché anzi lo si è eseguito – quantunque non con eccedente frequenza – un numero sufficiente di volte perché lo si potesse comprendere: ma come sempre, non è la musicologia a potersi far carico d’un reale approfondimento d’un settore del teatro musicale, bensì i suoi interpreti. (…) Michele Mariotti (precorrendo i prossimi Due Foscari scaligeri che si attendono adesso con ancor maggiore impazienza) ne dà l’interpretazione a mio avviso più rivelatrice che abbia mai avuto.
Concertazione di eccezionale trasparenza. I diversi piani sonori s’articolano tra loro attraverso una pulsione dinamica che nella sua plastica elasticità movimenta di continuo il progredire narrativo senza mai irrigidirlo in quell’asfissiante impeto barricadiero che della tradizione esecutiva verdiana è cancro dei più ribelli ad ogni moderno trattamento teatrale. Lo spessore del suono, è la costante morbidezza a renderlo compatto e non mai chiassoso: mutevole nei suoi colori, stesi in finissimi chiaroscuri che danno evidenza a ogni trapasso, accumulando così la tensione in un continuo crescendo anziché scaricarla di colpo alle prime battute, in nome di chissà mai quale effetto grintoso (il più delle volte sinonimo di gigionata, che un infausto e falsissimo luogo comune avrebbe reso connaturato al Verdi “di galera”; definizione sua, d’accordo; ma se la smettessimo di liquidarne in tal modo tutte le tappe?), oppure – quasi peggio – cincischiare talune finezze strumentali in guisa di carinerie fini a se stesse anziché provarsi a dar loro senso espressivo. Grandissimo abbandono al canto, sì. Perché la melodia (che chissà mai per quale ragione si critica spesso definendola “facile” solo perché capace d’imprimersi perentoriamente nella memoria; ne avessimo, oggi, qualcuno capace di plasmare melodie simili!) è tratto verdianissimo: purché però sia intrisa di quel non so che di aulico, di pateticamente grandioso che Verdi soleva indicare annotando in partitura “con enfasi”, ma purtroppo tanti, troppi, confondono enfasi con retorica, faccenda affatto diversa e difatti pronuba di fastidiosa monotonia ritmica. Invece, con un Mariotti così prodigo di sottilissimi rubati ecco questa melodia respirare, dilatarsi e raccogliersi, farsi linguaggio espressivo nel quale convivono varietà di particolari ed equilibrio generale, che non rilasciano ma al contrario serrano sempre di più il tesissimo, unitario e quindi teatralissimo arco narrativo. (…)
Ildebrando D’Arcangelo ne è protagonista quasi ideale. Il quasi riguarda una tal quale mancanza di polpa sonora in una pagina al riguardo scabrosissima come il duetto con Ezio: lodevolmente sacrificata, però, in favore di una morbidezza e pastosità di linea che sono premessa indispensabile per quell’accento nobilmente imperioso con cui interprete e direttore, in perfetta simbiosi, vogliono plasmare un Attila conquistatore mancato dell’Italia, capace per ciò stesso di provocare rimpianto non ci sia riuscito, tanto piccine Verdi ha descritto le italiche figure che gli si oppongono (e che certo non erano sparite, ai suoi tempi. E men che mai adesso). Simone Piazzola è un Ezio tortuosamente politico, cupo tessitore nell’ombra, Grande Inquisitore ante litteram: canta “Dagli immortali vertici” tutto a fior di labbro, e basta questo a definire l’autorità d’un direttore capace non d’imporre ma di convincere. Maria José Siri ha tutte le note di Odabella, che sarebbe già tanto: ma sa anche dar loro singificato espressivo, il che è ancor più raro. Fabio Sartori ha quello che i loggioni amavano definire “voce generosa”: stavolta, poi, sotto le note c’è anche qualcosa.
C’è tuttavia una modulazione in minore. Che di tanto stride maledettamente, nel complesso dello spettacolo, in quanto del tutto in antitesi a quanto si sente. La regia di Daniele Abbado non è una brutta regia. Non è una regia, punto. E più che mai mi ribello alla frase sommamente scema del “regia che non dà fastidio alla musica”. Con Verdi, una non-regia non dà fastidio alla musica solo se è musica diretta alla viva il parroco. Diretta invece così, non solo dà oltremodo fastidio: le tarpa ad ogni momento ali potenzialmente – verdianamente – ben più ampie.
Elvio Giudici

(La versione completa di questa recensione è pubblicata nel numero 201 di “Classic Voice”, febbraio 2016)


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