Verdi – Don Carlo

Discrasia tra quanto si sente e si vede: Mariotti e il cast incantano; lo spettacolo crolla
interpreti R.Aronica, M.J.Siri, D.Beloselskiy, L.Salsi, V.Simeoni, L.O.Faria, L.Tittoto
direttore Michele Mariotti
orchestra del Comunale
regia Henning Brockhaus
teatro Comunale

BOLOGNA – Capita spesso, nel teatro musicale, una discrasia tra quanto si vede e si sente. Dà sempre oltremodo fastidio: ma è una vera iattura se, come in questo caso, s’ascolta un capolavoro interpretativo e si vede una ciofeca.
La direzione di Michele Mariotti è il capolavoro maggiore. L’amara e disincantata visione politica di Verdi viene fatta emergere con eccezionale ricchezza di dettagli e ancor più eccezionale profondità psicologica nel suo intrecciarsi coi grovigli psicologici dei personaggi coinvoltivi. Portentosa, la trasparenza che la concertazione ottiene entro un ordito strumentale tanto denso, così che ovunque l’articolarsi dei molteplici piani sonori è immediatamente leggibile pur scansando sempre ogni sospetto di cincischiato calligrafismo. E c’è tanto teatro, in questa concertazione. Il calcolatissimo pulsare della dinamica traccia un oscillogramma emotivo di tanto più nitido in quanto sempre felpate, morbide sono le sonorità, tutte un chiaroscuro di colori scuri, financo spenti e purtuttavia ricchissimi di sfumature. Un’orchestra che svolge la narrazione rendendola subito evidente e nel contempo la commenta, ne chiarifica le motivazioni, ne esprime la profonda, austera, lucidissima umanità verdiana. Accompagna anche sovranamente il canto, Mariotti: valorizzando così uno dei cast migliori che quest’opera pur tanto problematica abbia avuto negli ultimi tempi.
Roberto Aronica ha voce potente, ben emessa e controllata così da sfoggiare sicurezza e squillo d’altri tempi: possono non essere imprescindibili per Carlo, ma sono comunque (specie ai nostri giorni, al riguardo assai sguarniti) un gran bel sentire, anche perché innervati da fraseggio sempre partecipe, sfumato, molto attento alla parola. Mi ha assai  sorpreso Maria José Siri. Non perché abbia cantato molto bene (lo fa quasi sempre, grazie all’ottimo bagaglio tecnico che la sorregge) ma perché stavolta il lavoro sull’accento, sui chiaroscuri, sull’articolazione della parola, sull’interpretazione insomma, è stato molto più approfondito di quanto solitamente costumi: cosa che ha reso ancor più bello, perché vario e sempre comunicativo, lo splendido colore timbrico.
Luca Salsi mi ha confermato nella convinzione che da tempo ho radicato dell’essere lui il miglior baritono verdiano attualmente in circolazione nell’universo mondo. Ci sono voci altrettanto potenti. Alcune (poche, peraltro, pochissime invero) hanno un bagaglio tecnico comparabile. Ce ne sono altre capaci di altrettanto scavo accentale. Altre ancora hanno timbri di seducente bellezza. Ma nessuno come lui assomma tutte queste peculiarità, decisive nel gran teatro verdiano: fondendole in una personalità spiccatissima, che (e il Dio del teatro lo benedica) con cocciuta perseveranza scruta nei dettagli della scrittura rifiutando ogni sovrastruttura deformante della cosiddetta tradizione per evidenziare invece al massimo l’autentico dettato di colui che in fin dei conti è uno dei massimi geni che il teatro – musicale e non – abbia espresso nella sua lunga storia. Grande cantante, Luca Salsi. Ma ancor più grande artista: il più grande interprete che oggi Posa possa sperare.
Formidabile anche l’Eboli di Veronica Simeoni. Non c’è frase che non sia lavorata al bulino della sensibilità e intelligenza di un’interprete di classe superiore. La voce è splendida; morbida, fluida, tutta omogenea la linea. Coloratura del velo sgranata benissimo ma soprattutto capace di sprigionare una sensualità raffinata, tutta di testa, con quel pizzico di humour che fa lievitare la scrittura virtuosistica dandole senso ben diverso dalla semplice ostentazione di bellurie. Conversa con Posa con una morbidezza ironica e salottiera affascinante, mentre lo scambio di battute con Carlo plasmano un carattere appassionato e umanissimo (quel “Salvarvi poss’io…io v’amo”!). Schiocca trancianti fiondate nel terzetto. Nell’aria, lancia e tiene un do bemolle al fulmicotone per poi svolgere, a partire da “O mia Regina”, un legato ch’è tutto un chiaroscuro di morbida, accorata melanconia. In breve: grandissima Eboli.
Dmitri Beloselskiy ha timbro molto bello e lo effonde lungo una linea estremamente ben padroneggiata: il fraseggio, quantunque non eccessivamente approfondito (ma l’orchestra è al riguardo fonte inesauribile di suggerimenti), è sufficiente a plasmare un personaggio sempre credibile e di grande presa teatrale. Un po’ qualunque l’Inquisitore di Luiz-Ottavio Faria (quantunque si debba essere grati d’avere per una volta scansata la consueta iattura d’un basso slavo rozzo e vociante), ed eccellente il Frate di Luca Tittoto, come sempre gran cesellatore della frase musicale: tanto che c’è da chiedersi non avrebbe conseguito tutt’altra resa teatrale uno scambio di ruolo tra i due.
Avvilente, a questo punto, parlare dello spettacolo. Henning Brockhaus ha avuto la fortuna di farsi conoscere nel mondo lirico grazie alla celebre “Traviata degli specchi” di Macerata: dove peraltro la grandezza dello spettacolo era merito molto più di Svoboda che suo. Ha poi centrato, sempre a Macerata, una gran bella Madama Butterfly. Poi, spettacoli di buona o, più spesso, mediocre routine. Qui non è neppure routine.
Tutto lo spettacolo è dominato dall’invasiva presenza immaginaria del Grande Inquisitore. Idea pertinente, ma realizzata malissimo presentandocelo appollaiato su un tronaccio gradonato e con arzigogoli decorativi, mosso su e giù lungo il palcoscenico: oltre tutto, non sarà colpa sua ma sarebbe compito del regista accorgersene, il povero Faria – mingherlino com’è – ha fisico inadeguato e l’immagine evoca prepotentemente, a parte le orecchie, lo Yoda di Star wars, con effetto parecchio bizzarro.  Pessima idea far assistere alla vestizione di Carlo V: che poi cos’è, un miraggio? un’apparizione? una realtà? E quelle dame che volteggiano birichine con parasoli color pastello? E che miseria quell’autodafè, con un seguito regale sparutissimo (e con la consueta gaffe del “Chi son costor, prostrati innanzi a me?” coi fiamminghi tutti ritti come birilli) e un impiego dello spazio quasi dilettantesco. Cosa significherà mai il nascondersi di Filippo sotto un drappo giallo, all’introduzione strumentale (vertiginoso capolavoro di Mariotti) di “Ella giammai m’amò”? Orrenda, l’idea di mostrare la vestizione monacale di Eboli durante l’introduzione (altro capolavoro strumentale) di “Tu che le vanità”. Nessuna idea sensata, tanta paccottiglia, molta confusione, personaggi a delineare i quali si confida interamente su orchestra e cantanti. Che per fortuna ci sono, ma sarebbero tutti attori capaci di ben altro che non d’una recita parrocchiale.
Elvio Giudici

 

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306 Novembre 2024
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