Recensione di Giovanna d’Arco, Milano Teatro alla Scala (7 dicembre 2015)
MILANO – Giovanna sente le sue voci di dentro. Ma pure le vede. In questa decisiva estensione della creatività d’autore si trova la chiave dello spettacolo – bellissimo – che ha inaugurato la stagione della Scala. La Pulzella d’Orléans dei registi Moshe Leiser e Patrice Caurier è una ragazza perbene dell’Ottocento stretta da un ambiente familiare opprimente e vittima di continue crisi d’isteria. La sua immaginazione malata proietta fantasie e fantasmi che si materializzano in camera da letto: non solo i diavoli e gli angeli del libretto di Solera – il “fantastico” e il “sovrannaturale” teorizzati nell’Ottocento da Abramo Basevi (che qui i video trasformano nelle forze opposte del sensualità e della virtù mariana più immacolata); ma anche l’intera vicenda della sua leggendaria chiamata alle armi.
Così, il Delfino Carlo è un cavaliere ricoperto d’oro da Medioevo di cartapesta. E gli eserciti, i soldati, le cattedrali e le corazze che irrompono nello spazio domestico provengono direttamente dalla mente di una adolescente di provincia neurologicamente malferma, che ha letto Walter Scott, ma anche molti romanzi d’appendice. Giovanna dà vita ai suoi personaggi come in preda a un perenne sonnambulismo e poi insieme al padre Giacomo – che all’inizio e alla fine guarda i vaneggiamenti della figlia dall’esterno – casca dentro la storia. Al di là dei tanti particolari che racconteremo in una recensione più estesa sul numero di gennaio, si può dire che la drammaturgia favolistica di Solera, imperniata su un dissidio tanto elementare quanto sciocco, non avrebbe potuto trovare soluzione visiva e narrativa più credibile di questa.
L’opera andava riscoperta e bene ha fatto Riccardo Chailly – a più di 25 anni dalla sua prima direzione al Comunale di Bologna – a volerla in questa inaugurazione: non è tra le più brutte, come la critica ha sostenuto per decenni (non figura fra i titoli degli anni di galera benedetti dalle successive rivalutazioni verdiane); ma tra le più irregolari: Verdi reinterpreta il soggetto prescindendo dalla dimensione politica e “mazziniana”, che aveva plasmato le sue creazioni fino a Nabucco e ai Lombardi. Qualcosa del connubio tra libertà e religione, certo, resta. Ma la “tinta” è nuova, diversa. Alle diableries assai di moda intorno agli anni trenta e quaranta dell’Ottocento – si pensi al Franco Cacciatore e all’Olandese volante, da una parte, e a Robert le Diable dall’altra – Verdi risponde col geniale paradosso di un’impronta musicale rossiniana: non solo nei giochi cameristici dell’intera batteria dei legni che suonano come ingegnosi Flotenuhr – gli orologi a fiato meccanici riempivano le case borghesi – ma pure nella musica popolaresca degli spiriti tentatori, quanto di più lontano dal fantastico e “tenebroso” di ascendenza romantica si possa immaginare. Una tinta che Chailly ha rispettato frenando ogni esito musicale arroventato, da verdismo terrigno e sbrigativo, risolvendo tutte le volte gli accumuli di tensione “in levare”: su lievitanti intrecci vocali e strumentali al confine con il febbrile sonnambulismo di Giovanna.
Una concezione condivisa con la compagnia di canto, eccezionale per educazione stilistica e compenetrazione espressiva. Certo, mancava la personalità di Carlos Alvarez (indisposto) a dare peso al personaggio di Giacomo, il padre inflessibile, rigoroso, mai poi tragicamente pentito: Devid Cecconi lo ha sostituito con pregevoli intenzioni da baritono “donizettiano”, realizzate con un’ammirevole tornitura vocale che però al tipo verdiano del “genitore” non basta. Il canto strumentale è sufficiente, invece, al Carlo re e amante “fittizio”, che Francesco Meli ha restituito con un lirismo pieno, suadente, capace di infinite sfumature ma non affettato, davvero da sogno. Protagonista assoluta, dunque, Anna Netrebko, più che un drammatico un “lirico d’agilità”: in grado di svettare e imporsi nei concertati, ma anche di piegare la voce su filati da capogiro e di affrontare con proprietà di mezzi la brillantezza assertiva delle cabalette. E’ lei, con la sua credibilità scenica e la sua autorevolezza vocale, a far vincere alla Scala la sfida dello spettacolo.
Andrea Estero