interpreti P. Domingo, A. Pirozzi, F. Meli, A. Concetti direttore Michele Mariotti regia Alvis Hermanis teatro alla Scala
MILANO – Che errore guardare al Verdi degli “anni di galera” come a un monolite. Le ultime esecuzioni scaligere ci ricordano che è vero il contrario: dopo una Giovanna d’Arco tutt’altro che appiattita sugli stereotipi del vigore primordiale e della passione prorompente, a confermarlo arrivano I due Foscari, di poco anteriori nella genesi. Opere “individuali”, già diverse da Nabucco e I Lombardi. Radicalmente solitarie nel caso del dramma veneziano ispirato a Byron. Verdi, infatti, in seguito definì l’opera un “mortorio”. Gli fece eco il suo primo esegeta Abramo Basevi, parlando di “un continuo piagnisteo”. Sbagliava: questa intransigenza nei confronti della convenzione operistica fu provvidenziale. Infatti è proprio a ridosso della singolare drammaturgia byroniana che Verdi tocca per la prima volta la corda della confessione intima e insieme grandiosa. Lo certifica indirettamente Liszt quando indica in Byron il modello di una nuova epopea moderna e “filosofica”, concentrata solo sulle azioni interiori delle più grandi personalità, da trasferire nel dettato libero dei poemi sinfonici. Tra l’altro The two Foscari era, come Manfred, un dramma destinato alla sola lettura. Pura emozione interiore.
Di tutto questo la direzione di Michele Mariotti è il corrispondente interpretativo. Pur essendo consapevole delle necessità dell’adattamento operistico – già cercate da Verdi e Piave – Mariotti attenua l’imperitura retorica verdiana del far sempre e comunque “tremar le vene e i polsi”. La trova nei gesti singoli, nelle fulminee esclamazioni orchestrali, per lasciare spazio a una più sottile e avvolgente corrispondenza tra voci e strumenti. Il risultato è quello di una fremente ansietà che percorre le linee vocali, proiettandosi sulla parola, e ricevendo da questa l’energia che accende le sinergiche reazioni d’orchestra. Senza calarle d’alto. Staccando cantabili e cabalette come emozionati soliloqui, che restano tali anche nelle scene d’insieme. E questo vale a maggior titolo nel finale, la commovente perorazione (“Rendetemi mio figlio”) di Foscari padre: Domingo a settantacinque anni dichiarati canta tutte le note senza martoriarle o forzarle (ed è già tanto nel panorama dei baritoni scaligeri overaged), ma è cauto nel conferire loro una qualche pregnanza, e qui non affonda nell’oscurità baritonale, non ne ha corpo e colore.
Anna Pirozzi ha invece la voce giusta per Lucrezia (una Lady ante litteram), ma scarseggia di morbidezze e proiezioni interiori. Francesco Meli interpreta il dolente figlio Jacopo con solare, intangibile, esibita bellezza di canto, ma a differenza che in Giovanna ora la parte ha spavaldi involi che alla “prima” mancavano all’appello. Andrea Concetti è un Loredano degno ma espressivamente innocuo, incapace di tradurre con la voce quei ghigni gestuali che Alvin Hermanis gli assegna. Sono le uniche annotazioni registiche – sopra le righe – di uno spettacolo nel complesso deludente: sbagliato nelle luci dirette e chiassose (per un’opera tanto cupa), macchinoso negli inutili siparietti di quinte mobili, statico nella gestione delle masse corali, stucchevole nei ridondanti balletti delle comparse (giudici, congiurati o gondolieri, qualunque cosa esse fossero) e nella bulimia pittorica da scontata pinacoteca veneziana.
Andrea Estero