Verdi – I Vespri siciliani

Verdi - I Vespri siciliani

interpreti G. Kunde, F. Vassallo, S. Radvanovsky, I. Abdrazakov
direttore Gianandrea Noseda
regia Davide Livermore
teatro Regio
TORINO

TORINO – Il Regio di Torino Fratelli d’Italia lo cantano tutti. È la notte dei 150 anni dell’Unità, la città è in festa. Per le strade è tutto tricolore, anche le t-shirt e la cristalleria nelle vetrine dei negozi del centro. Ma è quell’inno cantato a squarciagola che fa la differenza. Insieme con le mise patriottiche: tra cravatte e calzini bianchi, rossi e verdi, sfila la signora in bandiera. Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta. Si canta col cuore, senza retorica. Qui la “patria” non è mai degenerata.
È significativo che questi Vespri siano proposti al Regio. Una festa che non vuole celebrare sarebbe forse piaciuta a Verdi, che proprio con Les Vêpres siciliennes offre un ritratto sfaccettato, in alcuni casi impietoso, degli italiani. Lo tratteggia in francese, con la complicità di Scribe, e per il pubblico dell’Opéra. Nonostante la successiva, goffa, traduzione italiana d’epoca, a cui pare nessun teatro possa rinunciare, s’impegni per farcelo scordare.
“I Vespri”, anche in italiano, sono un capolavoro verdiano dell’ambiguità. Dove i siciliani  oppressi e ribelli sono guidati da un cospiratore anche un po’ inconcludente come Procida. E gli occupanti francesi si riscattano con un governatore che alla fine opera per la pacificazione. Nel 1855 il mito della rivoluzione italiana era in crisi, piegato dal velleitarismo delle gesta mazziniane che non portavano da nessuna parte. E Verdi lo andò a raccontare proprio a Parigi…
Nella produzione di Livermore e Noseda l’ambiguità è salva. E non importa se per renderla teatralmente efficace occorra “attualizzarla”. Qui il regista sceglie un presente che è gia passato (la Sicilia di venti anni fa, delle stragi eccellenti) o un futuro da incubo, con il Palazzo di giustizia di Palermo occupato, che speriamo non arriverà mai. D’altra parte il compositore pensando all’Italia del suo tempo lavorò su un fatto medievale, scartando l’ipotesi delle Fiandre cinquecentesche e della Lisbona di un secolo dopo. Per lui contava il rapporto di personaggi sfaccettati in un contesto storico e politico carico di implicazioni. Non il dove e il quando.
Funziona benissimo dunque la scena iniziale di fronte all’ex palazzo dei veleni mentre si celebra il funerale di una vittima eccellente. A officiarlo e a riprenderlo con le tv, sono gli stessi oppressori, simili in questo ai papaveri collusi di oggi; pronti a mantenere l’ordine quando Elena incita i siciliani alla vendetta davanti alle telecamere esattamente come la memorabile vedova Schifani ai funerali di stato del giudice Falcone. E altrettanto ambigua, dunque “giusta”, è l’ “O, tu Palermo, terra adorata” cantata da Procida sullo sfondo della strage di Capaci: luogo ambivalente, di morte e riscatto, di rabbia e commozione. Arrigo ed Elena passeranno alla fine col nemico: una pace “opportuna” (o forzata?) celebrata nella finzione di uno studio televisivo, palestra per applaudite esibizioni sopranili. 
Mentre invece tutto sbagliato sembra il finale: quando al posto della cieca rivolta dei siciliani aizzati da Procida arrivano i nostri, nella forma di un Parlamento che avanza a detronizzare il potere “televisivo” di Monforte. “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nei limiti della Costituzione”, dice lo striscione. Ma Verdi non concludeva in sospeso, con una rivolta dall’esito incerto, probabilmente un massacro, fatalisticamente sentito? 
C’è da dire che lo spettacolo, tutto pensato per immagini pregnanti, non si è giovato di un gioco scenico altrettanto inventivo. I cantanti eseguono bene, altri benissimo; e recitano così così. Il più bravo, Ildar Adbrazakov, è un Procida possente e solido, tutto d’un pezzo; Sondra Radvanovsky convince, nonostante qualche sbavatura negli acuti, trascinando il vocione anche nelle colorature di un rondò spigliatamente gestito. Ma con Kunde, miracoloso all’inizio e poi affaticato, soprano e tenore duettano all’antica (bella però l’idea della confessione d’amore seduti, pudichi). Il meno moderno, per gesto, gusto e fraseggio, è però il pur corretto Monforte di Franco Vassallo.

Anche Noseda, nella Sinfonia e alla fine, ha fatto ricorso alla retorica del suono rutilante ed esibito. Però poi la sua direzione asciutta e concentrata, avara di colori scintillanti e assai poco francese (anche nel taglio dei ballabili grandoperistici), ha trovato il giusto suono dei dilemmi verdiani. Mettendo a nudo lo spigoloso e incalzante scorrimento d’orchestra. E trovando accenti sussurrati e impalpabili negli snodi affettivi. Così verdianamente illusori. 
Andrea Estero 


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