L’ultimo 7 dicembre del sovrintendente e direttore artistico Dominque Meyer conferma le riserve dei precedenti quattro, tutti con Riccardo Chailly sul podio: quello proposto con l’allestimento della verdiana Forza del destino non è spettacolo adeguato alle ambizioni della Scala, al suo ruolo nella cultura dello spettacolo contemporaneo. La confezione è più televisiva che autenticamente teatrale: vista dal vivo e poi rivista in tv, questa Forza trova la sua giustificazione nella diretta su Rai1. Scene, costumi, movimenti sono materiali offerti, plasmati, dalle riprese – molto efficaci, con diverse prospettive “cinematografiche”- delle telecamere.
Regia per immagini
A occhio nudo si ha l’impressione di una regia, di Leo Muscato, condotta “per immagini”: quadri di una realtà storica che – come la pittura di un Goya o di Pelizza dal Volpedo – fissano nella memoria un’epoca. Quattro secoli (dal Settecento a oggi, ritmati sui 4 atti) dominati dalla violenza e dalle guerre che nel loro avvicendamento assecondano il tempo “lungo” scandito dalla drammaturgia (ogni atto si svolge anni dopo il precedente) e danno il senso di un pervasivo, ineluttabile, destino di violenza voluto dall’autore, grazie anche alla pedana rotante che ha favorito i cambi di scena, e agli ambienti rocciosi e opportunamente spogli e anonimi di Federica Parolini (il tempo storico era chiarito dai costumi di Silvia Aymonino).
Ambienti da romanzo
Verdi era molto interessato alle idee sul “romanzo storico” di Manzoni, e traduce questo interesse nella Forza e nelle sue scene collettive (un errore madornale tagliarle, come veniva fatto in passato anche in importanti palcoscenici). La bravura di Muscato sta soprattutto nel ricreare ambienti storici interessanti e melodrammaticamente credibili e nel muovere e gestire le masse, vivificandole con interventi e tocchi individuali pregnanti (poco visibili a teatro, ma ben rilevati dallo zoom delle telecamere: nel II atto, per esempio, il gioco di rimandi Leonora, Trabuco, Carlo). Che sia l’entusiastico assembramento di soldati e baionette nelle guerre d’indipendenza ottocentesche del II atto (che però prevederebbe “contadini e mulattieri” non militari) o la vita da ospedale di campo nella (Grande) Guerra di trincea, le immagini si fissano nella memoria. Con un notevole crescendo di impressione.
Personaggi sacrificati
Ma quando l’eremita Anna Netrebko nel quarto atto intona “Pace Mio Dio” con la mano alzata sopra le rovine di quella che potrebbe essere Gaza, Beirut o Kiev (anche qui una suggestione pittorica: Il mare di ghiaccio di Caspar Friedrich) resta il dubbio che quello, con un po’ di coraggio, sarebbe potuto essere “lo” spettacolo da nuova Scala: la guerra non solo come rievocazione pittorica ma dramma della contemporaneità. Magari collegato alla vicenda dei personaggi: il punto debole della regia resta infatti il lavoro sui cantanti nelle arie, nei duetti, nel terzetto. Si tratta quasi sempre di momenti di grande, grandissimo, impegno vocale: ma Alvaro – un mulatto ingiustamente discriminato (“Indo maledetto”), di famiglia nobile trucidata, ma disposto al perdono – o Leonora – una donna ossessionata dalla famiglia patriarcale e dal senso di colpa – sono figure psicologicamente interessanti. Come nei Promessi Sposi, il romanzo popolare che spartisce molto con questo atipico melodramma verdiano, i singoli sono pedine di una grande storia, ma possiedono lo status di tipi umani universali, di indiscutibile spessore narrativo (a partire da Padre Guardiano/Fra’ Cristoforo e di Fra’ Melitone/Don Abbondio), e sono comunque individualità complesse e tormentate: la regia di Muscato li tratta invece come figurine dai gesti prevedibili o icone statiche sempre al proscenio. Cantanti che cantano.
L’orchestra che respira
Lo spettacolo, a pannelli separati dai secoli ma rotante e ossessivamente buio nelle scene e nelle ambientazioni, è a specchio con la direzione da Riccardo Chailly, che lo motiva dal podio con una prestazione di orchestra e coro da collocare negli annali di quella Scala che battezzò la seconda e definitiva versione dell’opera (dopo la prima pietroburghese) ma che nel secondo Novecento l’ha riproposta poco. Della partitura che vive di accumuli e accostamenti/contrasti volutamente stridenti Chailly ricerca l’incoerenza, l’accostamento frontale di mondi sonori diversi, con stacchi di tempo e intenzioni talvolta “stringenti”, altre volte più prudenti e solenni (anche nello stesso brano: si veda il finale Atto II “Maledizione” solenne e incalzante), e con una notevole vocazione a scolpire l’accento strumentale – quanti assoli splendidamente modulati, a partire da quello ariosissimo e weberiano che introduce l’aria di Alvaro del III atto -, e rare sbavature d’insieme: il canto innerva l’orchestra e si riverbera sulle voci, non il contrario.
Meraviglia Rataplan
Proprio i momenti comico-umoristici e d’ambiente, censurati dalla critica verdiana ma che l’autore riteneva cruciali per la pittura storica al punto da potenziarli ed esporli nella riscrittura scaligera dell’opera, ricevono un’attenzione e un impegno direttoriale speciali: il bistrattato “Rataplan”, con modulazioni dinamiche estreme e una leggerezza e ariosità rossininiane, diventa un pezzo di musica assoluta, vertiginosa, modernissima nel insensato gioco sillabico, risolto con bravura e precisione estreme dal coro della Scala. L’orchestra d’altra parte è la protagonista dell’opera per la trama quasi leitmotivica che ne innerva la scrittura, coi ritorni tematici pervasivi (un unicum per il Verdi di quegli anni), che il direttore ritrova tutte le volte con un passo appassionato e una “presa” emotiva, a riprendere tutte le volte il filo narrativo e a ricomporre le discontinuità di tono e “genere”, raramente concessa dall’“oggettivo” Chailly.
Grandi voci o voci grandi
Alla densità sinfonica dell’orchestra corrisponde un parco voci importanti: la svettante Anna Netrebko non è sempre intonata nei suoni centrali (in cui abbonda il “petto”), ma è una grande fraseggiatrice in grado di scolpire le parole e chiaroscurare le palpitazioni di Leonora. Ludovic Tezier (Carlo) e Brian Jagde (Alvaro) sono più stentorei e dimostrativi, ma più irreprensibili vocalmente, con suoni perfettamente “coperti” e – il primo – con una notevole eleganza di emissione. La Preziosilla di Vasilisa Berzhanskaya canta bene, sfodera acuti penetranti ma spiana le parole in “Al suon del tamburo”; il Padre Guardiano di Alexander Vinogradov è nobile, il Fra Melitone di Marco Filippo Romano misurato e più accorato che irresistibilmente comico. Il Marchese di Caltrava di Fabrizio Beggi, corretto, ha l’espressione stralunata di un disegno di Goya. Alle origini il mulattiere Trabuco del II atto non coincideva col rivendugliolo “ebreo” del IV, che per prassi vengono cantanti dallo stesso tenore, qui Carlo Bosi, con timbro nasale accentuato, come da diffuso stereotipo antisemita d’epoca.
Andrea Estero
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