Verdi – Macbeth

interpreti L. Salsi, T. Serjan, M. Spotti, S. Pirgu direttore James Conlon regia Graham Vick teatro Della Pergola FIRENZE

 

firenze

Prima versione dell’opera, senza se e senza ma ovvero nota per nota come andò in scena nel 1847 in questa stessa Pergola. Istruttivo, senza dubbio, poter toccare con mano la sorprendente messe di novità sciorinate da un Verdi che nel rivedere vent’anni dopo la partitura sostituì non già pagine brutte bensì solo quelle (poche) soltanto banali e più riferibili all’epoca che già stava lasciandosi alle spalle. Il gioco ha valso la candela non per dimostrare la tesi (a mio avviso indifendibile nonostante il parere contrario di Graham Vick) che il primo Macbeth è migliore del secondo, ma proprio per aver ben chiari i termini della questione di cui sopra: e ciò è stato possibile grazie non al solito spettacolo volonteroso che in casi del genere è quasi sempre la prassi, bensì a uno dei Macbeth più interessanti degli ultimi decenni, capace di riportare il Maggio Musicale nell’alveo culturale che più gli è proprio, quello di stimolare confronti, dibattiti, e insomma cultura.
Conlon dirige con una ruvida energia capace di aprirsi in oasi di sbarrata melanconia, con un’attenzione millimetrica ai dosaggi dinamici, drenando i colori in un bianco e nero livido, quasi espressionistico: creando così una tensione che non s’allenta mai, che spinge sempre in avanti la narrazione rendendola un unico, serratissimo arco tragico sempre in totale simbiosi con lo svolgimento scenico.
Epoca contemporanea. Omaggio a una moda inflazionata? Non nelle mani di un regista autentico. Le streghe che all’inizio sono battone (pardon: escort) di stanza in un accampamento militare e circondano i due ufficiali inscenando il consueto campionario di lascivia prezzolata (pardon: burlesque), e il loro complimentarsi a due ufficiali ovviamente in cerca di gloria e di potere mette in moto qualcosa che già strisciava nelle coscienze. L’elemento soprannaturale in questo modo non scompare, ma si mostra anzi per quello che sempre è davvero: proiezione d’interne e altrimenti inconfessabili pulsioni interne. L’incontro di Macbeth con le streghe del terz’atto avviene dunque nella sua camera da letto, estrinsecazione dei suoi incubi. E per inciso: cosa riescono a fare, ad essere (oltre che a cantare benissimo), le coriste del Maggio! attrici da Oscar subito, con solo una riserva: perché non recitano sempre così, nel caso soccorrendo una regia deboluccia come talora fanno i veri grandi attori? E l’assassinio di Banco, subito prima della festa: ai bordi della piscina, sotto un gigantesco poster elettorale col faccione sorridente di Macbeth e la scritta “Il futuro della Scozia”, coi sicari che nel disporre lumini e festoni si cambiano la giacca nera con quella bianca dei camerieri, ammazzano Banco, lo nascondono sotto la tavola apparecchiata, e poi servono gli invitati, impeccabili come altrettanti Jeeves. L’orrore è nel nostro quotidiano, la violenza per ottenere il potere non ha alcuna grandezza tragica, è solo banale, cinica sopraffazione. Tanti cercano di scappare strisciando contro la rete di filo spinato che adesso circonda la piscina fattasi sporca e sbrecciata, ma sono gli stessi che hanno dato allegramente il consenso, senza pensare davvero a chi lo regalavano e a cosa quindi davano origine. La fine del tunnel è nella solitudine e nell’indifferenza: Macbeth muore sul suo letto, conscio dell’inutilità delle proprie azioni, mentre Malcolm lo guarda fumando con indifferenza seduto su una poltroncina, e magari nella sua mente già compaiono le streghe-battone della sua psiche.
Luca Salsi ha la grande voce che ben si conosce, ma stavolta la fa assai maggiormente apprezzare in virtù d’un fraseggio scavato, attento più alle sfumature che ai decibel: frutto evidente, a mio avviso, d’una regia che nel portarlo verso il gesto sempre significante gli suggerisce accento del pari significante. Discorso del tutto analogo per Tatiana Serjan. Il registro acuto è stridulo e forzato come sempre, la linea come sempre spezzettata e a lama di coltello così da enfatizzare la qualità non proprio sopraffina del timbro: ma gli accenti e le inflessioni, nel fare tutt’uno con simile sfumatissima gestualità, costruiscono un grande personaggio, nel quale la protervia si mescola alla sensualità e ad una nevrotica debolezza di fondo, dandogli connotati oltremodo originali e interessanti. Marco Spotti ha una magnifica voce di vero basso (cosa rara, oggidì), canta molto bene e conferisce spontaneamente a Banco un calore umano di magnifico spessore. Fanalino di coda Saimir Pirgu: voce piuttosto arida, linea assai faticosa, stile di canto che con Verdi c’entra niente. Ruoli di fianco ottimi, in compenso: con Elena Borin e Gianluca Margheri a far sì che Dama e Medico non svillaneggino l’introduzione al Sonnambulismo, intuizione musicale tra le massime di Verdi e già perfettamente compiuta nel 1847.
Elvio Giudici


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306 Novembre 2024
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