interpreti L.Salsi, A.Netrebko, R.Tagliavini, F.De Tommaso direttore Philippe Jordan regia Barrie Kosky teatro Staatsoper
VIENNA – “Torniamo all’antico, e sarà un progresso”. Lo disse Verdi entro un preciso contesto, da cui tale frase è sempre stata truffaldinamente estrapolata per farne manifesto dei conservatori a oltranza: intruppando Verdi nei quali, si compie l’ennesimo e forse più grave dei verdicidi. Però. Mi è venuta prepotentemente in mente, questa frase, assistendo al Macbeth forse più emozionante della mia non corta vita.
Verdi e Shakespeare, incontro al vertice di due tra i massimi geni del teatro d’ogni tempo e paese. Come lo fai, oggi, il loro teatro? Vado sempre più convincendomi che oggi (insisto: oggi), dovendo affrontare un teatro autenticamente grande, più si toglie del contorno e più ci si avvicina a quella “cosa in sé” di cui parla Lear. Shakespeare al Globe non aveva niente di niente attorno a quanto per lui solo conta: i personaggi. Il suo teatro – ma mi vien fatto di dire “il vero teatro” – nasce sui personaggi, che nello svolgere una storia rivelano di che son fatte le loro psicologie, come si scontrano, come evolvono. Non ho mai visto, prima di questo, un Macbeth dove tale impostazione è stata portata all’estremo limite.
Buio in sala e silenzio. S’apre il sipario. Un buio nulla rotto solo da quattro file – due in alto due in basso – di minuscoli led che disegnano una prospettiva che affonda nel nulla. Al proscenio, una nera massa informe illuminata dalla gelida luce bianca che proviene da una lampada di ferro ellissoidale molto abbassata: nel buio totale, diviene una sorta di gabbia di luce. Parte la musica, e dall’indistinta oscurità del fondo emerge pian piano un gruppo di esseri seminudi e dal sesso incerto, instabile (donne col membro, uomini coi seni e la vagina; “di questo mondo o d’altra regione?”) che oscillando avanza verso il proscenio. Ivi giuntovi, a turno ciascuno toglie qualcosa dalla massa informe: carcasse di corvi che hanno coperto Macbeth il quale faticosamente si rizza in piedi, come svegliandosi da un incubo. Shakespeare e Verdi s’allacciano misteriosamente non a Hitchcock come qualcuno ha scritto (che peraltro ci starebbe, quantunque un filo generico) bensì al Corvo di E. A. Poe, quella straordinaria poesia impregnata di sovrannaturale e di morte, scandita dal celebre “Nevermore”, mai più.
La morte, metaforizzata dal corvo, scandisce tutta la vicenda: resa una sorta di psicodramma da camera svolto per intero in quel nero nulla attorno alla gabbia di luce dove stanno due sedie. E basta, proprio nient’altro né di scene né d’oggettistica. Nel duetto Macbeth-Lady, prima lui poi lei si confrontano con l’assassinio gettando in aria piume di corvi. Nel sonnambulismo, lei è vestita di bianco al centro della gabbia luminosa, seduta su di una sedia; sulla spalliera, poggia un corvo che muove la testa cui lei avvicina la sua, allungando le labbra per suggere dal nero becco: per la prima volta, ho visto esplicitato in scena l’esatto senso di quel re bemolle finale, perché su quella nota lei – sempre seduta – reclina il capo e muore, la nota altissima svaporante nel nulla è la morte, è la sua anima dannata che esala dal corpo. E poi il finale.
S’è aperta per l’ennesima e sciocca volta la diatriba se l’inclusione di “Mal per me che m’affidai”, composta per la prima versione dell’opera e non inclusa nella seconda, sia lecita o no. Ebbene sì: può sostenersi, l’eresia che Verdi per una volta – una volta sola, via, ci sta in cinquantaquattro anni compositivi- si sia lasciato un filo troppo trasportare dal suo celebre “brevità e sublimità”, e magari abbia temuto che questo straordinario pezzo possa indurre una pietà, una compassione per un essere che non ne merita alcuna proprio là dove comprende quanto “vil corona, sol per te”. A parte che non mi pare possa avvenire comunque, tale compassione; e a parte che quest’ultimo verso ci sta nel contesto generale come meglio non potrebbe: Barrie Kosky spazza via ogni acribia filologica siglano proprio qui il capolavoro del suo spettacolo-capolavoro. Scende un sipario nero. Macbeth è davanti, in piedi al proscenio, pantaloni sdruciti neri, maglietta bianca strappata e punteggiata di pezzi d’ali di corvo. Canta il brano (Luca Salsi, sempre stato artista straordinario – sottolineo artista, diverso da cantante – fin dal bellissimo Macbeth alla fiorentina Pergola nel 2013 e da cui altro non ha fatto che crescere, qui tocca un vertice assoluto), poi si volta e il nero sipario torna ad alzarsi sul buio nulla. Il coro non s’è mai visto, sempre invisibile ai lati – il gruppo delle streghe è costituito dai mimi di cui dicevo, cui si può chiedere una gestualità strepitosa impossibile a ottenersi da un coro che debba anche cantare – e adesso principia la fuga finale. Liberatoria, catartica, esultante per la ritrovata libertà. Davvero? Macbeth sta adesso seduto al proscenio, e sulla sua sedia si appollaiano quattro corvi. Lui li guarda, sogghigna beffardo, li accarezza e getta sguardi e sorrisi ironici ai lati, da dove proviene quel giubilo. Non illudetevi. I corvi porteranno un altro Macbeth, e tutto ricomincia nella Storia che genialmente Jan Kott riassume quale Grande Meccanismo, scala da cui chi la sale, giunto all’ultimo gradino, inevitabilmente precipita e un altro subito ne pone il piede sul primo. Vil corona, solo per te ma sempre e comunque tornerà ad essere per te.
Verdi, in una lettera, indicò nettamente su cosa intendesse impostare l’intera sua drammaturgia: Macbeth, Lady, Streghe. Il resto è mero contorno. E mai m’è capitato di vederlo così perentoriamente tradotto in scena. La totale assenza del coro (eccezion fatta per “Patria oppressa”, che appunto per questo assume valenza impressionante, alla piena altezza del più bel coro mai composto da Verdi); la bravura dei mimi nel creare, sotto le portentose luci di Klaus Grünberg, quella massa gelatinosa e viscida che avvolge la coppia; la gestualità formidabile – neppure un nanosecondo di compiacimento calligrafico, sempre precisa, scolpita al rasoio – con cui Macbeth e Lady danno pieno senso a ogni snodo della vicenda: tutto si fonde al fuoco d’uno spettacolo per il quale ogni superlativo mi pare sminuirlo, perché emozioni così sono impossibili da descrivere, occorre viverle.
Dirige Philippe Jourdan, fresco arrivato a reggere la Staatsoper dall’Opéra di Parigi. Dove l’ho sempre ammirato perché è sempre stato bravo, ma ammirazione generica e morta lì. “Or comprendo”, come dice Cavaradossi. I francesi hanno speso patrimoni per cercare di metter su nel dopoguerra orchestre decenti, senza mai riuscirci: e quella dell’Opéra è forse la loro peggiore, nonostante i ditirambi indirizzati dalla loro mendacemente sciovinistica critica. Sceso nella buca dei Wiener, Jordan non diventa un altro, bensì è probabile possa finalmente essere quello che sarebbe sempre stato: e plasma una direzione pienamente all’altezza dello spettacolo. Arco dinamico sfrangiatissimo; agogiche calibrate alla perfezione e sempre in simbiosi con le varie tappe narrative; formidabile elasticità nell’accompagnare il canto lasciandogli piena libertà ma riuscendo sempre a serrargli attorno lo svolgersi della vicenda così che proprio quella libertà diventa sensibilissimo oscillogramma psicologico: grandissima direzione d’un grande uomo di teatro.
Ma sempre di Macbeth stiamo parlando, sempre di Verdi in miracolosa simbiosi di genio con Shakespeare. E quindi, senza due protagonisti capaci di essere all’altezza di simile direzione simbiotica con simile spettacolo, si resterebbe a mezzo il guado.
Lasciamo stare la tecnica, la qualità timbrica, il totale coinvolgimento di due mostri di bravura quali sempre sono stati Luca Salsi e Anna Netrebko: Samo è già troppo intasata, e altri due vasi non ci starebbero. Ma qui a fare la differenza è la capacità (possibile solo se la tecnica d’appoggio controllo e proiezione del fiato c’è, questo si capisce; altrimenti, solo lodevoli ma sterili intenzioni) di dare senso a ogni frase, a ogni parola, a ogni fonema, lavorando di dinamica così da trovare per ciascuno il colore giusto, quello capace di tramutare la parola in “parola scenica”: il tutto, portato a mille da quella cosa indefinibile – che se c’è c’è e altrimenti niente perché impararlo non si può – che si chiama carisma. Quando chiedi a Salsi e Netrebko di stare seduti durante la scena del banchetto tra un turbinio di tristissime stelle filanti variopinte (unici colori in uno spettacolo altrimenti immerso nel nero pece) e senza nessuno ma proprio nessuno attorno: sembra facile, ma se il carisma per reggere simili non pochi minuti non ce l’hai, tutto il momento si siede e amen. Idem nella scena delle apparizioni: che non ci sono, per l’ennesima volta tutto avviene nella mente di Macbeth che apre la bocca, e le sue labbra mute scandiscono le tre profezie che dal nulla provengono: genialissimo, giacché questa scena solo molto, molto di rado riesce (tanto per dire, Strehler che era Strehler al suo massimo, toppò miseramente coi suoi libelluloni e la sfilata dei faccioni), e ancora una volta abbiamo prova provata quanto nel togliere si raggiunga il massimo. Se però hai qualcuno capace di “riempire” il vuoto dandogli così senso.
Anzi, qui probabilmente sta l’unico limite di Kosky: una regia così, in assenza di Salsi e Netrebko, chi te la fa?
Bene il Banco di Roberto Tagliavini, benissimo il Macduff di Freddie De Tommaso (mi era sconosciuto, questo tenore neppure trentenne: da seguire con la massima attenzione, sperando che in aggiunta alla così ragguardevole voce ci sia anche la testa, che conta ben di più), ottime le parti di fianco, eccellente il coro che viene a capo di difficoltà temibili, dovendo stare invisibile ai lati e quindi – suppongo – poter guardare il direttore solo su monitor.
Sono uscito dalla Staatsoper volando, dimenticandomi persino di levarmi la mascherina. Si capisce, cinque stelle, ma per dirla con Maddalena “Sol cinque? son poche, valeva di più”.
Elvio Giudici
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