interpreti P. Domingo, F. Furlanetto, A. Harteros, F. Sartori
direttore Daniel Barenboim
regia Federico Tiezzi
teatro alla Scala
MILANO
MILANO – Non era questo il Simone che ci si aspettava, dopo l’ultima, storica, produzione scaligera con Abbado e Strehler. Non tanto sulla carta, altrettanto promettente, quanto per gli esiti. Deludente lo spettacolo di Federico Tiezzi, indeciso tra la statica illustrazione scenograficamente autosufficiente e le presenze simboliche posticce (gli alberi appesi in alto a indicare le radici ritrovate; l’emersione degli italiani dell’Ottocento a commentare il “sacrificio” di Simone, incorniciato da un gigantesco e macchinoso specchio mobile). Nella sua calligrafia, più che l’ambientazione medievale, e dunque “fedele”, colpiscono alcune soluzioni di maniera: i ben dieci soldati corazzati chiamati a incatenare Paolo (utili solo a compilare un insieme pittoricamente efficace) o la morte di Maria, risolta in una oleografica (e non necessaria) processione. E come dovrebbe presentarsi Amelia con Adorno al cospetto di Simone, se non in vestito da sposa?
Barenboim è un grande direttore, anche in Verdi. Ma la sua concertazione è sembrata più preoccupata di attenuare quanto di terrigno c’è in quella tradizione, che di rendere giustizia ai suoi idiomatici e teatralissimi scarti. Il finale del Prologo, autenticamente verdiano nella sua fatalistica dissociazione tra lutto e trionfo, ne esce slentato. Ma anche la scena del Consiglio si regge sulle presenze sceniche, più che sul compatto cemento orchestrale. Della legittima ricerca di una spiccata dignità strumentale, in tanti passaggi resta solo un generico tentativo di nobilitazione.
Tutte le attenzioni e il peso si concentravano così su Placido Domingo, eccezionalmente nel ruolo di Simone. La miracolosa tenuta della sua voce (nonostante la recente operazione) e la generosa volontà di mettersi in gioco con tutte le risorse del grande artista, non riescono a sopravanzare i limiti – di suono e di “corpo” vocale – della sua prova baritonale. Pur spiccando in una compagnia dove Ania Harteros si riscatta con personalità da precedenti più insipidi, Ferruccio Furlanetto resiste a qualche opacità nella tenuta vocale, Sartori trova l’abbrivio nelle svettanti arie di Adorno e il giovane Massimo Cavaletti affronta con successo la prova di Paolo.
Andrea Estero