interpreti L. Nucci, T. Iveri, F. Meli, R. Scandiuzzi, S. Piazzola
regia Giorgio Gallione
direttore Daniele Callegari
teatro Regio
PARMA – Lotte di classe e di fazione, bieca Realpolitik a base di “oro, possanza e onore” (si legga: voto di scambio); una partitura di colore oscuro ricca di sottigliezze armoniche e tonalità minori, ma belcanto pochino. Era già ben avanti sui tempi quando fece fiasco alla Fenice nel 1857: con l’aiuto di Arrigo Boito diventò un Boris all’italiana, applaudito alla Scala nel 1881 e presto rimosso dai cartelloni. Giusto quell’anno moriva Musorgskij, sai che piacere se avesse potuto leggere la partitura riveduta…
L’allestimento di Gallione e Fiorato, già in circolazione da tre anni, è ormai un classico; entrerà negli opera omnia del bicentenario verdiano su Dvd ad alta definizione. Per chi non l’avesse mai visto, basti dire che i due, genovesi purosangue, hanno ricreato una Superba espressionista e molto chic, con prospettive anamorfiche di stretti carruggi, palazzi gotici striati di marmo e ardesia, giardini nascosti, e il respiro sinfonico di un mare che, annunciato fin dal breve preludio, pulsa sempre nella mente anche quando è lontano dagli occhi. Incubi düreriani e un enorme panorama xilografico dalla Weltchronik di Schedel (1493) posticipano la vicenda di un secolo e mezzo, il che di questi tempi è una quisquilia.
A fare la differenza rispetto ai precedenti bolognesi e palermitani di questo Boccanegra è un cast inappuntabile. Non ci si racconti che è l’addio di Leo Nucci al ruolo di Simone. Per come si muove in scena da giovane corsaro nel prologo, e poi da energico statista venticinque anni dopo, per gli scatti irosi uso Sprechgesang, le note filate in acuto persino oltre il dovere, pare in grado di durare per centinaia di recite ancora. Marmoreo nei bassi cavernosi quanto nell’incesso cardinalizio, il Fiesco di Roberto Scandiuzzi fa breccia con ampio fraseggio ne “Il lacerato spirito”, poi torreggiando negli scontri al calor bianco col protagonista e nei nobili sdegni verso il traditore Paolo, qui interpretato da un biondone gagliardo come Simone Piazzola, rivelazione della serata.
Tale non sarebbe a rigore Tamar Iveri, la georgiana dal profilo di aquiletta che nel ruolo di Amelia ha debuttato al Covent Garden otto anni fa; ma Londra è lontana, e fra i parmensi la memoria di un secondo premio “Voci verdiane” vinto nel 1998 pareva già sfumata. Donde le ingenue meraviglie per una voce dal colore sontuoso e flessibile, solidi centri e pianissimi di velluto, acuti sfavillanti e tutto ciò che serve per l’unica primadonna di un’opera maschilista. Dopo un recente Idomeneo che non a tutti è piaciuto, Francesco Meli, tornato ai vertici di lirico spinto, eroico e cabalettante, faceva mirabilia e riscuoteva meritate ovazioni da un pubblico che ai tenori poco o nulla perdona. Vedremo come se la cava nell’imminente Werther; ma che coraggio il giovanotto!
Con polso febbrile, mancanza d’inibizioni e curiosità di sperimentazioni timbriche, il bravo Daniele Callegari aggrediva la partitura stimolando tutti quanti a darsi senza riserve: memorabile la scena del Gran Consiglio, con corrusche esplosioni orchestrali e acuti saettanti nella sezione sopranile del popolo.
Carlo Vitali