Verdi – Un ballo in maschera – Scala

interpreti M.Alvarez, S.Radvanovski, Z.Lucic, M.Cornetti, P.Ciofi
direttore Daniele Rustioni
regia Damiano Michieletto
teatro alla Scala
Milano

foto-Ballo-in-maschera

 

MILANO – Non sono tutte uguali, le attualizzazioni d’un intreccio teatrale, sia esso teatro musicale o di prosa. Nel senso che non basta, per fare teatro moderno, che il suo protagonista, anziché marsina e parrucca settecentesca, indossi berretto da baseball e blue-jeans: occorre che l’apparenza diversa faccia parte d’un disegno coerente teso a estrarre le ragioni drammaturgiche dell’intreccio e a declinarle nella contemporaneità affinché meglio se ne comprendano le linee di forza che epoca lontana e lunga consuetudine possono appannare proprio nei classici del grande e perciò frequentatissimo repertorio. Così come la prassi della destrutturazione sistematica sempre e comunque – tanto nell’opera quanto nella prosa – mi sembra che cominci ad aver fatto il suo tempo: anche nei casi (rari) in cui poi si riesca a fornire una riconoscibile ristrutturazione, il rischio dell’esercitazione intellettualistica è forte e, nel caso del teatro musicale, molto raramente si ristabilisce in seno alla narrazione quella rispondenza parola-musica che per molti autori (e Verdi ne è tra i capofila) è conditio sine qua non del modo di far teatro.
Preambolo a mio avviso necessario per indicare in Damiano Michieletto l’unico regista italiano che al momento sia in grado di raccogliere (e in molti casi di vincere) il confronto coi maggiori artisti stranieri, soprattutto anglosassoni, che da tempo – e nella colpevole ignoranza nostrana – hanno dato volto nuovo e oltremodo significativo al teatro musicale. Innanzitutto, Michieletto lavora da sempre con Paolo Fantin, scenografo geniale per le idee e tecnicamente all’avanguardia nel saperle tradurre in dispositivi scenici perfetti affinché l’ottica registica possa esplicarsi con le  massime libertà e forza. Una prassi sempre auspicabile, che mi richiama alla mente il celeberrimo sodalizio De Lullo-Pizzi che a suo tempo rivoluzionò il teatro di prosa (ma anche lirico) italiano.
In secondo luogo, Michieletto vuole sempre raccontare la storia del libretto. Nel senso che cambiano le didascalie, ma solo perché i personaggi, i rapporti che si stabiliscono tra di loro e con l’ambiente che li esprime, ne escano rafforzati e resi immediatamente riconoscibili.
Ballo in maschera: concepito da Verdi nella corte svedese fine Settecento di Gustavo III e per ragioni censorie trasferito in una assai improbabile Boston antecedente d’un secolo, Michieletto e Fantin lo ambientano in una Convention americana dei giorni nostri, sostituendo saloni e salotti damascati con uffici tutti vetri acciaio computer e poster propagandistici. Ma avesse fatto solo questo, il risultato sarebbe liquidabile col classico “embè?”. Quello che lo rende, non solo accettabile, ma entusiasmante esaltazione dello spirito più autenticamente verdiano, è la gestualità che presiede alla creazione dei caratteri, al loro incrociarsi, alla loro evoluzione, al rapportarsi con l’ambiente circostante. Un politico in carriera che non può esprimere i suoi veri sentimenti. Come non lo può una donna che gli sta vicino, ma è sposata al di lui indispensabile braccio destro. Si amano, ma neppure sono certi che il loro amore sia reciproco. Lei va da una di quelle santone che dilagano da un’infinità di schermi televisivi americani, versione enormemente pantografata delle analoghe nostrane che tolgono e gettano malocchi con manciate di sale, e mandano a cercare – dopo adeguato compenso – un’erba “miracolosa” (e qui, Fantin ha un’idea che tra le sue geniali è genialissima. Il suo “orrido campo” è il retro della medesima tribuna davanti a cui officia la maga truffaldina, i beoti spettatori mutati allora in quattro puttane per niente solidali tra loro). La trama, in sostanza, è la stessa. Ma l’essere cosa dei nostri giorni ne rende non solo immediatamente riconoscibili i gesti, dunque le motivazioni, dunque la sostanza psicologica: li rende inquietanti “cose nostre”, di cui conosciamo parecchie coinolgenti quanto disturbanti analogie. Dunque questo è teatro. Teatro che ti prende di petto, che ti fa pensare (non acriticamente “sognare”, come vorrebbero tante anime belle, particolarmente numerose nel turno A scaligero, che per dirla col Primo Giudice s’è confermato “antro abbietto che chiama i peggiori”, con squittii patetici cui hanno fatto riscontro ancor più patetici lanci di volantini dal loggione, molto stile prima scena del viscontiano Senso, ma ahimè scaduto a mesti pensierini delle elementari corretti da una deamicisiana maestrina dalla penna rossa): teatro vero. Teatro che non perde un colpo di quelli previsti da Verdi, ma anzi li raccoglie tutti e li potenzia. “La testa che ha negli occhi il baleno dell’ira” è una delle puttane che assale Amelia e le toglie il visone lasciandole il proprio impermeabile di plastica bianca. Il “Ve’, se di notte” (che è scena molto lunga, resa ancor più lunga dal bloccarsi su se stessa dell’azione) diventa un momento thriller, in cui gli oppositori politici distruggono l’immagine – e quindi l’autorità, ovvero il potere – dell’avversario, costretto a guardare un’oscena pantomima di sesso tra uno che indossa quell’impermeabile e un altro che gli si struscia sopra. Nel terz’atto, grazie all’introduzione del bambino e ad una gestualità scioltissima, mai s’è visto tradotto con tale immediata pregnanza l’intrico musicale dei tre piani del quintetto: Renato e Cip & Ciop, alias Sam-Tom, da una parte;  Amelia dall’altra (agghiacciante l’idea di far estrarre il nome dal bambino); l’addetta stampa signorina Oscar che va nevroticamente dagli uni agli altri. Durante il “Ma se m’è forza perderti”, mentre da un lato Amelia – restata in scena, ma in un’altra delle stanze a vetri dell’ufficio propaganda – scrive alla maga, Riccardo scrive una lettera: nella nostra epoca i salvacondotti non esistono, dunque di che natura essa sia lo scopriamo al finale, ed è l’ultimo dei continui colpi di genio di questo spettacolo.
Il ballo in maschera è il party finale della Convention, svolto metaforicamente entro un labirinto di sagome di cartone riproducenti Riccardo da una parte, ma grigie dall’altra: il loro alternarsi (e quando abbiamo l’immagine di fronte, s’accende la gigantesca luminosa con lo slogan elettorale “Riccardo incorrotta gloria”) riflette quello tra musica da ballo e colloqui privati. Ma alla sua tragica conclusione, mentre al centro sta il cadavere di Riccardo assassinato, un suo “doppio” consegna ad Amelia il proprio ultimo scritto, non più pubblico ma privato; lei lo legge sventagliandolo sugli occhi di Renato, e quelle parole noi le udiamo espandersi dalla voce di Alvarez ritto accanto a lei: bellissima declinazione teatrale dell’artificio pittorico con cui nel Quattrocento veniva mostrata l’animula del morto che ne usciva dalla bocca, sede della sua più intima e vera natura.
Questo non è assassinare il teatro: è esaltarlo come raramente è stato fatto, e in particolare mai col Ballo.
Tutto questo non avrebbe potuto ottenersi senza l’apporto di grandi cantanti-attori: Marcelo Alvarez ritrova tutta la propria statura di artista che ogni tanto dimentica a favore della sua autoreferenzialità tenorile, comunque eccezionale. Sondra Radvanovski effonde non solo un fiume di voce – comunque ragguardevole, oggidì – ma un fraseggio teso, incisivo, sfumato in chiaroscuri sempre espressivi. Zeljko Lucic fa ascoltare una grande, bella e ben emessa voce di vero baritono, il che sarebbe oggi già cosa rara: ma in più, certi chiaroscuri sofferti e melanconici plasmano un magnifico personaggio. Benissimo l’Ulrica di Marianne Cornetti, e benissimo anche l’Oscar scenico di Patrizia Ciofi, che vocalmente è parsa invece un po’ stanca. Daniele Rustioni ha concertato con mirabile finezza di dettaglio e diretto badando a tener viva e incalzante la narrazione: una prova più che lusinghiera, data la giovanissima età alle prese con una partitura che, già insidiosa come poche di suo, ancor più si annunciava tale in una delle tipiche serate autolesionistiche di un teatro la cui intima vocazione sembra quella d’una vetrina della più bolsa e modaiola provincia. Vocazione che solo una massiccia cura di spettacoli come questo può – ci si augura – contrastare.

Giancarlo Cerisola

 

 

 


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