BAYREUTH – Tutto si può dire del Bayreuther Festspiele, tranne che non stia facendo i conti col proprio passato. Chi lo frequenta incappa da qualche anno nelle tappe obbligatorie dell’autoprocesso cui si è sottoposto il Festival per i suoi rapporti strutturali col nazismo: un grande giardino di stele biografiche, proprio davanti al teatro, ricorda musicisti e direttori ostracizzati o, peggio, uccisi nei lager; la casa minimalista di Siegfried Wagner, di fianco a Wahnfried, infligge ai turisti un documentario (in sola lingua tedesca) nel quale un giovanissimo Wieland Wagner (figlio di Siegfried, nipote di Richard) reclina la schiena per far scrivere più comodamente un Führer giulebbe, peraltro assiduo ospite di quelle mura. Quest’anno, poi, il titolo d’apertura del Festival – la nuova produzione de “Die Meistersinger von Nürnberg” – non ha lasciato scampo a temi diversi. Ma l’ossessione autopurgante nazista, sotto la lente dell’austrialiano-israeliano Barrie Kosky, è diventata capace di leggerezza e compassione. Un miracolo, maneggiando nella stessa opera il destino dell’arte tedesca, l’antisemitismo, il nazismo, il processo di Norimberga. Il finale dei Maestri Cantori – Hans Sachs nei panni di un Wagner sovraeccitato, spalle al pubblico, che dirige orchestra e coro – è sembrato un atto di umana assoluzione, al termine di un processo durato quasi quanto l’opera intera. I fedelissimi dei personaggi originali avranno dovuto fare uno sforzo di adattamento, trasformandosi, come detto, Hans Sachs in Wagner, Eva in Cosima Liszt, Pogner in Franz Liszt e Beckmesser nell’ebreo Hermann Levi, per la cronaca uno dei pochi musicisti ebrei ammessi al cerchio magico bayreuthiano anche dopo la morte di Wagner. Scena prima, il salotto di Wahnfried, la sacra residenza “dove la follia trova pace”. Lì, riprodotta fedelmente anche la biblioteca, un vanesio e ipercinetico Hans-Richard (Michael Volle è un maestro raro di voce e movimento) intrattiene gli ospiti e due veri cani terranova. Pare un pedante padrone di casa, di quelli che vorrebbero mostrare le diapositive delle vacanze: di colpo, però, la scatola scenica che contiene il salotto (plauso alle scene di Rebecca Ringst) viene risucchiata nelle quinte; nello spazio di un respiro il suo padrone ne è eiettato, subito circondato dalle pareti dell’aula di tribunale di Norimberga, mentre il pulpito degli imputati gli si solleva sotto i piedi. Sipario chiuso, shock assicurato.
Il secondo atto, il più onirico e sfilacciato dei tre, oscilla dal déjeuner sur l’herbe di Hans (ovvero Richard) ed Eva (ovvero Cosima) fino al delirio antisemita che sceglie Beckmesser come vittima di questa abbozzata kristallnacht; una febbre ingigantita al parossismo, con un enorme pallone che si gonfia nelle fattezze dello stereotipo fisignomico ebreo (tanto assomigliante a Wagner stesso) e che ha come unico pregio quello di sgonfiarsi quasi subito. E finalmente il terzo atto, nell’aula di Norimberga, anche in questo caso fedelmente ricostruita come l’abbiamo conosciuta nella fosca memoria fotografica di quei dì. Qui Barrie Kosky dà prova di saper maneggiare le grandi masse. Caos e saturazione umana in scena non lo spaventano affatto, anzi lo esaltano. Impossibile non riconoscere la genialità di trattamento di cotanta carne sul palcoscenico, un coro nel coro, che non ha mai dato per un attimo l’impressione dello strabocchevole (secondo plauso a Klaus Bruns, costumi). Consumata la gara canora che incorona Walther von Stolzing (il luminosissimo timbro di Klaus Florian Vogt), si arriva alla fine del processo. Con analoga dinamica rispetto al primo atto, le stanze di Norimberga sono sollevate in un amen, e dalle quinte ecco entrare in velocità una grande scalea che ospita l’orchestra e il coro, pronti per il finale. Hans Sachs/Wagner, il cui banco da imputato è diventato frattanto un podio da direttore, si sbraccia così a condurre la sua stessa musica. L’effetto non è né macchiettistico né celebrativo: si direbbe compassionevole. Perché in tutto questo l’eroe/antieroe, affermazione/negazione di sé stesso, è rimasto solo. Unico, sul palco, a dirigere un’orchestra che in realtà non sta nemmeno suonando, perché quella vera è ben nascosta in buca, diretta da Philippe Jordan, attento a cesellare più che a far esplodere, a colorare più che a imporre forza (per la sua composta antiretorica sarà applaudito da tutti, a differenza del regista). Librandosi col trasporto di un fauno risvegliato, Wagner non sembra il condannato a morte delle superpotenze di Yalta né il vecchio vanesio che intontisce i suoi ospiti. Ma è solo. E solitario continua a dirigere, come fosse un Beethoven sordo, anche quando l’orchestra gradualmente si ritira nelle quinte. Altro che arte tedesca immortale, qui il dramma della senilità, del non poter dire più e altro, è esploso sotto il basco di Wagner. Sopravvissuto al processo, condannato dalla solitudine del tempo.
Luca Baccolini
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